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Forum 2043

Adriano Olivetti e il Movimento Comunità

Continuano i lavori del Forum 2043, alla ricerca delle radici di un territorialismo, civico e ambientalista, adatto al XXI secolo.

Abbiamo pubblicato un approfondimento su Adriano Olivetti e il Movimento Comunità, che sta riscuotendo un grande interesse, e che potete trovare a questo link.

Il Forum 2043 parte dai valori della Carta di Chivasso del 1943 e, in vista del suo centenario, che sarà appunto nel 2043, vuole preparare una nuova generazione di giovani leader locali a impegnarsi per la Repubblica delle Autonomie, per l'Europa dei Popoli, per il bene dei territori, perché le persone e le comunità possano continuare a vivere in economie e democrazie a dimensione umana.

Prato, 20 settembre 2023 - a cura del gruppo di studio interterritoriale che anima il Forum 2043

 

Autonomia differenziata, specchietto per allodole

  • Autore: Gruppo di studio interterritoriale Forum 2043 - 4 febbraio 2023

Udine – Firenze - Palermo, 4 febbraio 2023

Autonomia differenziata, vent’anni dopo:
uno specchietto per ingannare, inaridire e disperdere
gli autonomisti nell’Italia di oggi

Le forze civiche, ambientaliste, autonomiste e territorialiste di Autonomia e Ambiente e che partecipano agli studi del Forum 2043 non si fanno attrarre da quello che consideriamo, oggi, un grande specchietto per le allodole, la c.d. “autonomia differenziata”.

E’ impossibile credere che una classe politica che da vent’anni non conclude nulla in materia di autonomia, proprio ora che sono al potere figure apertamente centraliste e presidenzialiste, possa fare qualcosa per le autonomie personali personali, sociali, territoriali, che essa non ha mai compreso né rispettato.

I nostri attivisti, eletti, intellettuali devono aiutarsi vicendevolmente a restare fuori dalla babele di assurdità (politicamente parlando veri e propri inganni), che vengono profuse sui media, sulle reti sociali e, purtroppo, anche nelle aule parlamentari (piene di nominati dai vertici dei partiti centralisti, che non si sa in cosa credono, ma che proprio per questo paiono capaci di tutto).

L’approvazione “preliminare” del disegno di legge Calderoli è una operazione propagandistica e anche di bassa qualità. Gli attivisti per l’autogoverno di Veneto, Lombardia, Emilia (collegati nella rete “22 ottobre” da ormai più di cinque anni, cioè dal giorno dei referendum veneto e lombardo del 22 ottobre 2017), come ha detto e scritto Paolo Franco, si sentono giustamente presi in giro.

Alcuni spunti per una riflessione critica:

1) la riforma costituzionale del 2001 del Titolo V fu fatta in fretta (dal Centrosinistra), è piena di difetti, è di difficilissima applicazione, ma fu approvata dal referendum popolare del 7 ottobre 2001, perché c’era allora – e crediamo ci sia ancora, in verità – un grande consenso popolare trasversale attorno all’idea che gli enti locali e le regioni abbiano più risorse e più poteri, per il bene delle rispettive comunità locali. Questo consenso popolare verso il grande ideale di una “Repubblica delle Autonomie”, all’interno di una grande confederazione europea, lo dobbiamo proteggere dalle forze centraliste che oggi governano e in particolare da certi loro leader privi di competenza e credibilità.

2) Il mondo, l’Europa e l’Italia sono molto cambiati in questi vent’anni. Sono cresciute sull’onda della digitalizzazione nuove grandi multinazionali globali. La produzione legislativa europea ha continuato a crescere a dismisura, investendo ogni materia. Il governo centrale italiano, con la scusa dell’austerità, delle varie emergenze, dell’Europa e della globalizzazione, ha represso le autonomie personali, sociali e territoriali. La metastasi delle norme e l’ipertrofia delle autorità centraliste soffoca sempre di più persone, imprese, famiglie, comunità locali, senza peraltro assicurare giustizia, sicurezza, spesso nemmeno protezione. Questa deriva centralista e autoritaria non ci spaventa, siamo qui per contrastarla, rinnovando la nostra adesione alla Carta di Chivasso del 19 dicembre 1943, ma di certo non ci illudiamo di poter lottare per riforme autonomiste come avremmo fatto non diciamo un ventennio, ma nemmeno un lustro fa. Occorrono molta più preparazione, molto più coraggio e soprattutto molta più umiltà, per cambiare veramente le cose per il bene dei nostri territori.

3) Come scrive con lucidità la nostra forza politica sorella Siciliani Liberi, discutere di nuove forme di autonomia implica innanzitutto il rispetto di tutte le autonomie esistenti (a partire da quelle delle cinque regioni a statuto speciale e poi tutte le altre). Implica l’attuazione piena degli Statuti in vigore e dell’art. 119 della Costituzione, che prevede, fra le altre cose, una perequazione fiscale a sostegno dei territori che sono stati impoveriti e spopolati dal colonialismo interno. Perequazione che è concetto sconosciuto non agli autonomisti, ma ai centralisti, a quelli che sono stati al potere ininterrottamente negli ultimi vent’anni (in veste di sinistra, tecnici, centro, movimentisti, populisti e destra).

4) La grande sfida politica che ci aspetta nei prossimi anni, non solo in Italia ma in Europa e nel mondo, è la territorializzazione delle imposte, a cominciare da quelle sul consumo. Si sta (quanto lentamente!) comprendendo che le multinazionali devono pagare tasse dove abitano i loro consumatori, non dove sono le loro sedi legali e fiscali. Allo stesso modo, anzi a maggior ragione, se un pugliese compra un prodotto piemontese, le imposte su questo consumo devono restare in Puglia! E’ incredibile come siano ancora così pochi, anche nel mondo autonomista, ad aver compreso questa la necessità di questo cruciale cambiamento.

5) E’ doveroso suonare la sveglia a tanti improvvisati “meridionalisti”, avvocati del Mezzogiorno, tardivi epigoni di “equità territoriale”, sé dicenti “difensori dell’uguaglianza dei cittadini”, aspiranti “sindaci d’Italia”. Si agitano come cassandre contro l’autonomia differenziata, vista come un cavallo di Troia per la “secessione dei ricchi”, la “fine dell’Italia”, la “rovina del Sud” e altre catastrofi, senza accorgersi di essere funzionali al centralismo autoritario (fuori dai denti: sono veri utili idioti del nazionalismo centralista al potere). Purtroppo per loro e per tutti noi, i disastri che essi paventano, sono mali che infuriano già da decenni e ancora oggi, nell’Italia centralista che essi difendono con una testardaggine degna di miglior causa. E’ il centralismo che distrugge e spopola i territori, a vantaggio di poche privilegiate capitali politiche ed economiche, se ne facciano una ragione. Le autonomie, al contrario, hanno fatto e farebbero ancora fiorire e arricchire i territori.

6) La promessa contenuta nella Costituzione (art. 116, terzo comma) di ulteriori forme di autonomia (su 23 materie elencate all'art. 117, vedi nota in calce) è minata da una ambiguità di fondo (sin dai tempi delle bozze Gentiloni, sia chiaro): essa instaura una autonomia graziosamente concessa dallo stato centrale a un territorio (o a due, o a tre, ovviamente in modo differenziato per ciascuno di essi). Queste autonomie asimmetriche ed eterogenee sarebbero intrinsecamente fragili e sempre sottoposte a una continua ed estenuante trattativa con lo stato centralista, come ben spiegato negli interventi della forza sorella OraToscana.

7) Infine – in cauda venenum - anche se (nel mondo dei sogni dei leghisti e dei “nordisti”) le ulteriori forme di autonomia previste dal Titolo V venissero un bel giorno concesse, esse potranno comunque essere sempre ritirate (sicuramente dopo dieci anni, c’è scritto nella furbastra bozza Calderoli). In barba al sacrosanto principio su cui l’Italia fu ricostruita dopo la tragedia della Seconda guerra e la barbarie nazifascista: lo stato non concede, ma riconosce le autonomie personali, sociali, territoriali. Ci sarebbe da chiedere, a coloro che sono andati al potere con le elezioni precipitate del 25 settembre 2022, se aderiscono davvero ai principi della Carta costituzionale...

L’autonomia differenziata è, politicamente parlando, un treno perso. Senza una svolta davvero autonomista, essa finirebbe per essere uno strumento divide et impera, dove il potere centrale manterrebbe sempre il coltello dalla parte del manico. I capi centralisti e nazionalisti si trovano certo a loro agio in questo imbroglio, ma i civici e i localisti che lottano in tutto il paese per il bene delle loro comunità ed economie locali, i decentralisti e i federalisti, gli autonomisti sparsi in tutte le province, invece, devono essere inquieti.

Si scuotano, prima di finire scuoiati.

 

Dal gruppo di studio interterritoriale del Forum 2043

 

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Nota sulle 23 materie che possono essere oggetto di “ulteriori forme di autonomia”, la c.d. “autonomia differenziata”:

L'art. 116 terzo comma della Costituzione italiana stabilisce che: "Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119".

Elenco delle materie ex art. 117 terzo comma:

01) rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni;

02) commercio con l'estero;

03) tutela e sicurezza del lavoro;

04) istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale;

05) professioni;

06) ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi;

07) tutela della salute;

08) alimentazione;

09) ordinamento sportivo;

10) protezione civile;

11) governo del territorio;

12) porti e aeroporti civili;

13) grandi reti di trasporto e di navigazione;

14) ordinamento della comunicazione;

15) produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia;

16) previdenza complementare e integrativa;

17) coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;

18) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;

19) casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;

20) enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale

Le tre ulteriori materie ex art. 117 secondo comma:

l) l'organizzazione della giustizia di pace

n) norme generali sull'istruzione

s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali

Si veda, per un approfondimento: https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104705.pdf

 

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Per l’immagine di corredo di questo post siamo debitori del sito “Oltre il Ponte”:

https://www.oltreilponte.org/societa/7496/

 

Autonomie per tutti non per pochi

  • Autore: Canio Trione - Bari, 24 agosto 2023

Riflessionidi Canio Trione,riprese dalsuo volume “L’economia virale” (Napoli, 2021, Giammarino Editore) edai suoibrillantiinterventi su https://bariseranews.it/,adattate al contesto del Forum 2043.Non èineluttabile chel’avanzamento tecnologico e finanziario debba ridurre e non espandere le autonomie personali, sociali, territoriali, afferma convintamente Canio Trione, con la forza della sua preparazione economica e la passione con cuipromuove il bene delle persone,la prosperità delle piccole imprese, l’azionecivico-politicalocale, competente e responsabile, per il bene delle generazioni future.

Dopo che la Repubblica Italiana è entrata in un’area valutaria grande ma anche disfunzionale come l’Eurozona, i territori, le piccole imprese, le famiglie e le persone soffrono. E’ una ripetizione in grande scala di quanto accadde ai territori del Sud che furono unificati nello stato dei Savoia. Ai problemi dell’unificazione del mercato europeo si aggiungono le storture della globalizzazione, in cui i capitali sono liberi di muoversi ma restano accumulati in depositi virtuali che, per quanto le elite che li controllano conducano una vita lussuosa oltre l’immaginabile, non potranno mai essere spesi, né investiti.

Senza entrare in tecnicalità, ci sono stime che ci raccontano un mondo in cui la ricchezza reale prodotta sarebbe ormai di 100 trilioni (convertiti tutti in dollari) l’anno (il PIL globale), mentre altri 400 trilioni esisterebbero come ricchezze virtuali (la ricchezza finanziaria globale), a cui però nessuno può ragionevolmente accedere in questa situazione politica internazionale.

La nostra risposta a questo stato abnorme delle cose non può essere la nostalgia o il mugugno, ma la comprensione di ciò che è insostenibile e può essere ragionevolmente corretto perché le persone comuni possano vivere.

Le tecnostrutture del capitalismo internazionale possono persino predire e indurre consumi, con le tecnologie esistenti, ma esse incarnano un nuovo autoritarismo economico-sociale-finanziario.

Nell’impegno delle forze civiche, ambientaliste, territorialiste che si stanno raccogliendo nel Patto Autonomie e Ambiente e che s’incontrano nel Forum 2043 per portare avanti i valori umanistici della Carta di Chivasso, c’è evidentemente grande attenzione per il tema delle autonomie come fatto istituzionale. Concentrarsi sugli aspetti istituzionali è certamente la via maestra che si è sempre seguita, ma il mondo è cambiato molto e in peggio.

Oggi le istituzioni – globali, europee, dello stato repubblicano italiano - sono totalmente corrotte nel senso proprio del termine. In esse si mediano gli interessi e si soddisfano i desideri dei più forti. Con il controllo dei dati e dei media, nessuna di esse ha più alcun bisogno di rispondere ai cittadini, come dovrebbe essere secondo la minima educazione civica in cui siamo cresciuti e secondo la Costituzione vigente (tanto riverita quanto tradita).

Costruire o ricostruire una democrazia come governo del popolo attraverso i suoi rappresentanti, è aspirazione che non può essere abbandonata, ma non basta più. Ammesso e non concesso che sia mai stato sufficiente.

Quindi chi si impegna per le autonomie, se vuole proporsi come modello di governo del futuro, deve acquisire -anche se non condividere- questa drammatica realtà e impegnarsi a superarla. Sicuramente servono governi locali più forti degli attuali, ma essi, nello stato attuale delle cose, sarebbero comunque, una alla volta, preda facile degli interessi delle elite globali.

Il contenuto insopprimibile dell’azione politica futura deve continuare a essere la difesa delle identità, delle diversità, della bellezza, dell’umanità delle specificità locali. Queste azioni politiche però devono incontrarsi e unirsi nel comune interesse a contrastare fermissimamente la omologazione, l'appiattimento, la uniformizzazione.

Dobbiamo insieme resistere a forze omologanti potentissime come quelle che abbiamo visto plasticamente in azione durante la pandemia Covid-19, quando pochissimi grandi monopoli farmaceutici hanno ordinato alle organizzazioni internazionali, alla Commissione europea, ai governi nazionali, di somministrarci i loro farmaci indistintamente e e obbligatoriamente, come se gli esseri umani fossero polli in batteria.

Questa capacità livellatrice è di gran lunga più profonda e pervadente del comunismo reale o di altre esperienze totalitarie della modernità, perché essa non si afferma con la violenza, ma con il controllo delle menti e dei cuori.

Attraverso le narrazioni diffuse globalmente dalle grandi concentrazioni mediatiche, il controllo e la sorveglianza universale resi possibili dalle nuove tecnologie, l’efficacia della repressione ottenuta attraverso il controllo di banche dati globali (che possono letteralmente farci “scadere”, come se gli esseri umani fossero una “password”), le concentrazioni di potere della modernità, i centralisti, ci trasformano in tutti in numeri. La pressione del conformismo, su scala globale, ci priva di identità e pensiero.

Non si accontentano dell’ubbidienza. Vogliono che la pensiamo come loro e che ci adeguiamo (compliance!) prima ancora che essi abbiano trasformato i loro progetti in ordini.

Ovviamente nell’umanità globalizzata possono diffondersi viralmente anche idee di resistenza, non solo di obbedienza, quindi la situazione è seria, ma forse non totalmente compromessa.

Su questo punto possiamo essere d’aiuto, unendo forze territoriali, sociali, culturali, per incidere sulla vita, a partire dalle persone più umili, dalle periferie della globalizzazione.

Dobbiamo dircelo chiaramente: abbiamo poco tempo. Non ci è concesso di tergiversare.

Siamo dentro una deriva rapidissima.

Sul piano monetario, va avanti la concentrazione del potere bancario (poche stanze dei bottoni possono chiudere i conti di ogni potenziale dissidente).

Sul piano economico, si continua a favorire i potentati privati transnazionali.

Sul piano culturale e mediatico, le nostre menti sono invase da ciò che viene prodotto e distribuito da pochissime centrali produttive globali.

Non c’è tempo per immaginare chissà quali organizzazioni o istituzioni nuove, dobbiamo da subito influenzare la politica per salvare la sanità fisica e mentale della persona umana e delle comunità locali in cui essa vive e lavora, nella loro preziosa specificità, dal cibo al divertimento, dal vestito alle cure, dal parlare quotidiano fino alla libertà di culto.

Tutto ciò è possibile, purché ci uniamo in percorsi concreti di difesa delle autonomie, da condividere tra di noi, senza indugi.

Dobbiamo contrastare la pandemia della cultura dell’emergenza, rifiutandoci di avallare l’accavallarsi di risposte emergenziali. Dobbiamo riportare tutte le attuali istituzioni a una normalità in cui si sia in grado di gestire anche le sfide più difficili, senza ulteriori concentrazioni di ricchezze e di potere.

Dobbiamo ripristinare una sfera incomprimibile di libertà d’azione per l’individuo, perché egli sia in grado, dal basso e dal piccolo, di reagire prontamente e autonomamente ai cambiamenti.

Dobbiamo restituire credito e agibilità alle piccole e medie imprese locali e ai loro primi clienti, che sono poi i loro concittadini. Perché esse tornino a fiorire devono essere liberate di tutti gli oneri impropri che sono stati imposti (magari giustamente) alle imprese più grandi.

L’economia deve essere liberata dalle catene della finanza. La tecnologia deve alleggerire la vita della persona e non renderla schiava. Le istituzioni devono tornare al servizio della persona.

Questo è il nostro cantiere, al lavoro.

- Autonomia per tutti, non per pochi -di Canio Trione -Bari, 24 agosto 2023

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Foto di Canio Trione tratta da:

https://www.scriptamoment.it/2020/04/27/intervista-a-canio-trione-economista-leconomia-che-verra/

 

Autonomisti in rinnovamento, unico argine al centralismo

  • Autore: Erik Lavévaz, Union Valdôtaine (già presidente della Valle d'Aosta) - Aosta-Trento, 12 aprile 2023

Il Nuovo Trentino ha pubblicato stamane un altro importante contributo dalla nostra rete per la Repubblica delle Autonomie, l'intervento di Erik Lavévaz, esponente della Union Valdôtaine e già presidente della Valle d'Aosta. D'accordo con il direttore Paolo Mantovan pubblichiamo qui, in serata, l'intervento integrale (titolo originale: Autonomie storiche al lavoro per il futuro).

L'autonomia speciale Valdostana ha, come quella Trentina, una lunga e articolata storia che si è sviluppata nel corso dei decenni e che ha portato ai nostri territori delle grandi opportunità, non sempre colte appieno. L'Autonomia è uno strumento da sfruttare a pieno per il vero obbiettivo, che è il benessere dei nostri territori.

Viviamo anche nell'estremo Nordovest della Repubblica un momento particolare della politica. Per molto tempo le dinamiche della politica nazionale hanno solo lambito, spesso in maniera quasi impercettibile, la politica della nostra piccola regione, quasi come se le nostre alte vette fossero un limite invalicabile per le sirene della politica romana. Oggi, ahimè, questa dinamica si è drasticamente modificata e anche le nostre montagne sono diventate più permeabili alle ondate di politiche populiste e nazionaliste.

Da un lato sicuramente questo è dovuto alla crescente circolazione, facilitata dalle reti sociali, di messaggi sempre più demagogici, più che alla bontà e alla credibilità delle proposte politiche provenienti da lontano, ma dall'altro, come scriveva in queste pagine poche settimane fa l'amico friulano Roberto Visentin, spesso il risultato politico negativo di una compagine autonomista è da attribuirsi più a demeriti propri che a meriti altrui.

La storia dei movimenti autonomisti valdostani nasce sulle orme della Carta di Chivasso, con una storia che quindi si avvicina agli ottanta anni. Decenni in cui la politica è cambiata molto e nei quali naturalmente anche le vicende umane e personali, che naturalmente sono tanto più incisive quanto più piccole sono le dimensioni della realtà di riferimento, hanno influito in maniera pesante. Il mio movimento, il partito storico autonomista Union Valdôtaine, ha subito scissioni e diaspore, in una progressiva polverizzazione di movimenti autonomisti che ha naturalmente facilitato l'attecchimento di partiti, movimenti e leader della scena politica statale.

Il grande sforzo per invertire questa dinamica divisiva e autolesiva che abbiamo portato avanti in questi ultimi anni si concretizzerà nel corso del 2023 in un evento organizzato in una data simbolica per il mondo autonomista, non solo valdostano: il 18 maggio, data della morte per mano dei nazi-fascisti del martire e padre dell'autonomia valdostana Émile Chanoux. In quella occasione formalizzeremo un percorso di ricomposizione del mondo autonomista, unico vero antidoto alla deriva nazionalista e passaggio necessario per il futuro dell'autonomismo della nostra piccola regione.

Come si dice spesso, l'autonomia richiede sforzi e sacrifici per essere difesa e mantenuta e questo è forse vero oggi più che mai nella storia repubblicana.

Nel nostro piccolo abbiamo portato avanti questi sforzi negli ultimi anni proprio per giungere oggi a poter raccogliere qualche frutto e poter immaginare un futuro per il nostro particolarismo.

Nelle ultime elezioni regionali del 2020 la Lega ha ottenuto la maggioranza relativa con 11 seggi sui 35 disponibili, con un ampio distacco sul secondo partito, l'Union Valdotaine, con 7 seggi. Nonostante questo siamo riusciti a formare una maggioranza con soli movimenti autonomisti e progressisti.

Alle scorse elezioni politiche, storicamente il momento in cui la permeabilità alla politica nazionale è più evidente, nei nostri collegi siamo riusciti ad eleggere con ampio margine il nostro deputato autonomista. La Lega ha invece eletto il senatore per poco più di duecento voti, a causa di una candidatura autonomista parallela, che ha di fatto vanificato gli sforzi degli altri movimenti autonomisti.

Ancora in queste ultime settimane abbiamo avuto una crisi politica all'interno del consiglio regionale. Il dibattitto è stato molto acceso e si è protratto per diversi mesi. Il motivo? Una tensione “filo-governativa-romana” all'interno dei movimenti autonomisti, una visione che nella logica di qualcuno avrebbe visto come una panacea per la stabilità politica regionale un accordo con la Lega Salvini, anche in una logica di facilità di rapporti con il governo romano. Un’idea semplice e pragmatica, apparentemente, ma in realtà una pietra tombale sul percorso, assolutamente vitale, di ricomposizione dei movimenti autonomisti.

Non sempre la soluzione più semplice è la soluzione migliore: l'autonomia e in prospettiva l'autogoverno richiedono impegno e sforzi più importanti, ma che sono ampiamente ripagati dalla prospettiva di essere liberi e responsabili del proprio futuro.

Erik Lavévaz

consigliere regionale Union Valdôtaine e già presidente della Valle d’Aosta

Aosta-Trento, 12 aprile 2023

2023 04 12 Erik Lavevaz fonte RTS

 

 

 

 

 

 

(fonte dell'immagine: https://www.rts.ch/audio-podcast/2020/audio/l-invite-de-la-matinale-erik-lavevaz-president-de-la-vallee-d-aoste-25169059.html)

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Dai Vespri siciliani all'alba dell'autogoverno

  • Autore: A cura di Marco Lo Dico, Movimento Siciliani Liberi - 30 marzo 2023

Il 30 marzo 1282 per la Sicilia è una ricorrenza simbolica di grande significato. Quel giorno lontano i Siciliani cacciarono gli Angioini, un potere estraneo al proprio territorio, ma non sarebbe stata l'ultima rivolta. Il ricordo di quel moto di ribellione è rimasto come simbolo di una speranza di emancipazione per il popolo della Sicilia, un simbolo che ha ispirato artisti, intellettuali, filosofi e politici, ogni volta che è stato necessario lottare per la propria autodeterminazione.

Non è quindi folklore, non è solo un lontano passato, non è una rivendicazione astorica, non è una nostalgia indipendentista fatta solo di parole che non costano nulla.

Oggi, in questo XXI secolo, la Sicilia è ancora subalterna e in uno stato coloniale di dipendenza, nonostante costituzionalmente dovrebbe godere di un'Autonomia Speciale riconosciuta e non concessa, essendo precedente alla Costituzione stessa e alla nascita della stessa Repubblica Italiana cui dovrebbe essere considerata confederata.

La Sicilia, come ogni altro territorio e ogni altro popolo della Terra, oggi si trova nel mezzo di un cambiamento epocale, che riguarda l'intera umanità.

Le contrapposizioni classiche (destra/sinistra, est/ovest, cultura occidentale/cultura orientale, nord/sud) sono superate. Nella globalizzazione il potere e le ricchezze si vanno concentrando sempre più in mano a pochi e il fatto che alcuni di questi pochi si proclamino “buoni”, non li rende affatto più rassicuranti dei “cattivi”.

I poteri centralisti e autoritari, ingigantiti dal loro predominio sul mercato mondiale e rafforzati dalle loro tecnologie di sorveglianza universale, indipendentemente da quali siano le ideologie che li ispirano, sono semplicemente disumani (demoniaci, direbbe Romano Guardini).

Il senso di insicurezza e di impotenza delle persone comuni, delle famiglie, delle piccole imprese e delle comunità locali è pervasivo e paralizza ogni forma di reazione. Ed è dalla rete di relazioni e da una presa di coscienza comunitaria che si deve trovare la forza di reagire e creare il modo di ridisegnare e riprogettare il nuovo mondo non secondo un “nuovo ordine”, ma a partire dalle comunità, che sono invece antiche, ma parte viva della storia siciliana e, in definitiva, della storia di ogni popolo.

Le narcomafie, i ministeri italiani, la tecnocrazia europea, le multinazionali, le agende globali, indipendentemente dalla loro “moralità/amoralità” sono grandi macchine livellatrici, che vogliono appiattire e cancellare identità, diversità, eredità, spiritualità, in una parola: l'insopprimibile diversità, che rende umano l'uomo e provvidenziale la natura.

Il Vespro siciliano, oggi, è parte di una rivolta globale, decentralista e territorialista, perché solo con la moltiplicazione di una miriade di democrazie locali sempre più forti, competenti, sovrane, si potranno fermare le grandi macchine livellatrici, portatrici di omologazione, distruzione ambientale, disumanizzazione (o peggio, transumanizzazione).

Oggi, più di sempre, l'autogoverno del proprio territorio è l'unico modo per comunità responsabilmente coese di fare la differenza, rispetto al destino miserevole che viene riservato dalla globalizzazione a tutte le sue periferie.

In un tempo di crisi e di impoverimento, in cui i media globali ci stordiscono con il loro pensiero unico, in cui le grandi potenze ci tengono perennemente in guerra, in cui le tecnocrazie ci raccontano che stiamo passando da una emergenza all'altra (per cui c'è sempre bisogno di loro...), che un nuovo Vespro si animi, qui in Sicilia e ovunque.

    1. Contro i pregiudizi e per restituire significato alle parole

Il Forum 2043 sta mobilitando attivisti e intellettuali di una vasta area civica e ambientalista, impegnata per l’autogoverno dei propri territori, smontando le narrazioni che cercano di allontanare i cittadini dalla necessità di auto-organizzarsi politicamente, dal basso, rovesciando le piramidi di partiti e partitini centralisti, autoritari, settari.

Pur da posizioni ideali diverse, le diverse sensibilità nell’autogoverno del territorio devono contribuire all’insieme di tasselli e varietà che compongono il mosaico della storia dell’uomo e della sua “umanità”.

La narrazione sulla “mala gestio” locale, per esempio, viene alimentata dalle effettive perversioni del clientelismo. Eppure cosa è il clientelismo, se non la rinuncia programmatica e pragmatica alla responsabilità dell’autogoverno? Il clientelismo distrugge interi territori, come la nostra Sicilia, proprio quando questi territori, invece che raccogliere e gestire responsabilmente in autonomia le loro risorse, ne ricevono da altri poteri.

La globalizzazione non garantisce affatto “maggiori opportunità”, ma la certezza che per ogni vincitore ci saranno milioni di sconfitti. Il successo di ogni singolo e gigantesco attore della globalizzazione, del grande “produttore mondiale”, comporta la rovina per tutti gli altri. Il fiorire di alcune capitali economiche planetarie comporta la desertificazione di tutti gli altri territori. Una globalizzazione che spogli, però, i territori, le comunità, le persone della loro capacità di provvedere a se stesse, non potrà che trasformarsi in un regime, o essere percepita come tale.

La realtà ci sta dimostrando, attraverso gli squilibri crescenti all’interno del mercato comune europeo e del mercato globale, che non c’è economia locale e amministrazione locale dei beni comuni e di tutti i servizi pubblici, senza istituzioni di autogoverno.

Mai come oggi, quindi, le persone, territorio per territorio, devono sentire l’urgenza di assumersi la responsabilità di autogestirsi.

La Sicilia è, come è, un antico e ancora vivo paese d’Europa. Presto, anche grazie ai Siciliani, coloro che hanno immaginato di imporre un unico regime economico, fiscale, giuridico alla Baviera, al Salento, alla Sicilia stessa, saranno messi di fronte alla loro follia.

Allontanando sempre più poteri e risorse dai territori, non si crea alcuna efficienza, ma solo il moltiplicarsi di norme astratte, di imposizioni incomprensibili, di un senso di esclusione delle persone dalla responsabilità del proprio futuro.

Stiamo reagendo a questa globalizzazione (e a quella forma di globalizzazione in sedicesimo ma più intensiva che è la “europeizzazione”), attraverso la riscoperta delle diversità e delle identità.

Alcune parole, nella nostra storia e nel nostro impegno politico, sono importanti e devono essere restituite al loro significato migliore:

- anticolonialismo: la Sicilia è entrata nella modernità come una colonia interna, prima del Regno di Napoli, poi dei Savoia, poi del sistema euro-atlantico, un domani chissà; i valori e i fatti della resistenza al colonialismo interno all’Italia e poi all’Unione Europea devono essere studiati, compresi e infine trasformati in una resistenza e in una rinascita (su questo lavora da anni il prof. Massimo Costa);

- indipendentismo: una parola con una storia nobile, una speranza che, con il crollo delle menzogne e dell’oppressione fasciste, nella Sicilia fu abbracciata da un vasto movimento popolare; l’indipendentismo fu rappresentato nella Costituente della nuova Repubblica da figure come quella di Andrea Finocchiaro Aprile; l’indipendentismo, insieme e non contro i rappresentanti degli altri territori del crollato Regno sabaudo, raccogliendo le sfide poste dalla Carta di Chivasso, arrivò a stringere un patto confederale fra la nuova Repubblica Italiana e la nuova Regione Siciliana; il fatto che questo patto, e lo Statuto speciale che lo custodiva, siano stati traditi, o che nel tempo i movimenti indipendentisti siano stati ridotti a fenomeno marginale e parolaio, non ne diminuisce in alcun modo il valore sia storico che di aspirazione per le generazioni future; tutti i territori, nella globalizzazione, devono aspirare a essere sempre meno dipendenti, pur nella umana e planetaria interdipendenza;

- nazionalismo: altra parola che sappiamo essere, almeno dai tempi di Tom Nairn ma per molti aspetti sin dall’Ottocento, sempre scivolosa e ambigua; negativa quando viene sposata dai capi di uno stato grosso che distrugge i popoli che vivono al suo interno, o addirittura quelli vicini; positiva e spesso nobile, quando si lega al sentimento identitario dalle piccole nazioni e nazionalità che non vogliono essere cancellate; nelle piccole nazioni o nei territori ancora privi di una statualità o di istituzioni di autogoverno, peraltro, il nazionalismo non deve mai diventare esclusivo e divisivo, ma deve essere la storia politica di un identitarismo maturo, di un impegno contemporaneo per il decentralismo e per l’autogoverno di tutti e dappertutto, per conservare radici, interessi e valori, attaccamento alla propria terra, senza mai cedere alle lusinghe di chi ci vuole senza patria (senza “matria”), senza identità, senza legami, senza responsabilità, transumani o, in fondo, subumani, invece che umani.

 

    1. Per un processo di sempre minore dipendenza

Il Movimento Siciliani Liberi, soprattutto attraverso la formazione di una nuova generazione di giovani leader locali competenti e diligenti, si offre come luogo di ricomposizione di tante divisioni e come punto di incontro fra diversità, per attivare un processo virtuoso di sempre minore dipendenza della Sicilia.

I temi e i progetti concreti che difendiamo sulla scena dell’attualità politica siciliana e italiana sono noti e più urgenti che mai, a partire dal ritorno allo Statuto, alla sua piena attuazione, con alcuni corollari che sono la Zona Economica Speciale Integrale (compatibile anche con l’attuale rigido assetto dei Trattati europei) e il traguardo storico della territorializzazione delle imposte.

Tuttavia questo non è sufficiente.

Sappiamo di essere in una emergenza ambientale e che quasi tutto nella nostra economia dovrà tornare a essere sostenibile e compatibile con la salvaguardia del creato.

Non vogliamo che la cosiddetta “transizione” avvenga secondo canoni imposti da poteri anonimi e lontani, centralisti e autoritari, che si travestono di verde, propugnando un ambientalismo posticcio e mediaticamente spendibile. Un vero ecologismo non può costruirsi creando altra povertà, altre migrazioni, altre infelicità. Le istituzioni della Sicilia, il Parlamento della Sicilia, devono contare qualcosa, perché è in esse che le persone che vivono in Sicilia possono sentire di poter fare la differenza.

L’azione comunitaria dal basso dei cittadini siciliani, attraverso istituzioni di autogoverno in ciascuno dei nostri territori e nella nostra intera Isola, può davvero realizzare percorsi di indipendenza energetica, di autosufficienza alimentare, di conservazione dell’acqua buona come bene comune, di protezione del nostro patrimonio naturale e culturale per le generazioni future. Questo è indipendentismo, oggi, nel XXI secolo.

Sicuramente noi siamo una parte, anzi siamo una minoranza nella nostra stessa terra.

Tuttavia, in un mondo globalizzato, nell’Unione Europea, nella attuale Repubblica Italiana, le minoranze possono costruire solidarietà interterritoriali e intersezionali, per aiutarsi vicendevolmente a ridare voce e in prospettiva potere alle comunità, a tanti “noi”, non al’ “io” dei tardoliberisti. Nuovi traguardi di autogoverno, insieme, sono possibili per il bene comune con il protagonismo di molti e non di pochi, nell’interesse di tutti i viventi e delle prossime generazioni.

Crediamo nella solidarietà fra diversi, per costruire lotte di popoli, attaccati ai loro paesi, contro le élite avide e cieche della globalizzazione.

Crediamo nella sovranità come capacità di resistere insieme, governati e governanti loro prossimi, alle attuali dinamiche distruttive che dominano il mondo, con esiti genocidi (scomparsa di lingue e culture, come la nostra siciliana) ed ecocidi (lo sterminio di innumerevoli specie viventi e l’immissione su scala megaindustriale di veleni nell’ambiente).

Tutti gli esseri umani vogliono essere LIBERI, ma per essere liberi bisogna essere onesti gli uni con gli altri e leali! Capaci di vivere e autogovernarsi, INSIEME, territorio per territorio. Così si è liberi e responsabili, e solo così, andrebbe aggiunto senza sposare toni apocalittici, si resta vivi e si tramanda ciò che siamo alle generazioni future.

Sappiamo che la situazione è grave, a causa degli eccessi di centralismo autoritario, e avvertiamo un senso di emergenza, ma non da soli, in quanto Siciliani, ma insieme ai Sardi, ai Toscani, ai Friulani, a mille altre nazioni e comunità del pianeta.

Per questo siamo in Autonomie e Ambiente e lavoriamo per una nuova stagione di azione politica con EFA (la nostra famiglia politica europea: l’Alleanza Libera Europea), con cui parteciperemo alle prossime elezioni europee del 2024 e anche ad altre competizioni elettorali interterritoriali.

Con umiltà, ma con coraggio, vogliamo contribuire a un rinnovato decentralismo internazionale, contro tutti gli irredentismi, i colonialismi, gli imperialismi, per la pace.

Palermo, giovedì 30 marzo 2023

a cura di Marco Lo Dico - Movimento Siciliani Liberi

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Essere ancora autonomisti in montagna: possibile e necessario

  • Autore: A cura della segreteria della Assemblada Occitana Valadas (si ringrazia in particolare Mattia Pepino) - Valadas, 25 marzo 2023

Siamo un' organizzazione politica occitanista, aperta, inclusiva e trasversale, forse l'unica con tali connotati presente nelle nostre Valadas che fanno parte della Repubblica Italiana.

Le nostre valli entrano nella storia scritta con l’espansione romana. Il Regno dei Cozii, in Valle Pèllice (Val Pelis), riuscì a mantenere un sostanziale autogoverno rispetto all'Impero Romano almeno fino all'epoca augustea, grazie alla grande duttilità e alla prudenza che sono da sempre caratteristiche della gente di montagna.

Un evento importantissimo avvenne durante il Medioevo, quando, nel 1343, nacque la Repubblica degli Escartons. Nota anche come Carta Magna, la Repubblica si estendeva sui 2 versanti delle montagne (oggi italiano e francese), tra la Valle Varaita e la Alta Val di Susa in Italia, fino a Briancon in Francia.

L’autonomia veniva esercitata attraverso sconti sulla tassazione, che consentirono un florido commercio, un notevole miglioramento socio-economico ed arricchimento culturale, al punto che gli storici parlano di "Paradiso Alpino", o anche di “paradosso alpino”, proprio in riferimento alla Repubblica degli Escartons. Mentre il resto d’Europa soffriva la Peste Nera e le altre crisi del Trecento, si registrò un aumento di istruzione e un'apertura sociale superiore tra le persone di montagna rispetto a quelle di pianura, evento molto raro.

La Repubblica degli Escartons cessò di esistere nel 1713, con il Trattato di Utrecht.

Nei secoli successivi le valli occitane continuarono tuttavia ad essere terre di agricoltori molto intraprendenti, ma anche artigiani, commercianti e maestri. Le valadas, peraltro, diedero rifugio, durante gli anni dell'Inquisizione, al movimento religioso dei Valdesi che furono drammaticamente perseguitati dai potenti della Chiesa Cattolica.

Anche l’avvento della modernità e delle terrificanti guerre e dittature del Novecento non ha spento l’anima occitana. Le nostre valli sono state fra i primi teatri della resistenza al nazifascismo, subendo numerosissime rappresaglie, tra cui spicca l’eccidio di Boves di fine 1943-inizio 1944.

Persone di cultura occitana come Osvaldo Coisson parteciparono alla redazione della Carta di Chivasso del 19 dicembre 1943.

Tuttavia, in particolare nel secondo dopoguerra, le valli occitane subirono, come gran parte dei territori emarginati da nuovi poteri politici e industriali, un drammatico spopolamento. Elva, per esempio, passò dai 1.319 abitanti del 1901 ai 92 del 2016, Vernante dai 4.519 del 1901 ai 1.219 del 2011; Salbertrand dai 1.172 del 1901 ai circa 550 di oggi. L’urbanizzazione e l’industrializzazione delle città di pianura hanno offerto maggiori opportunità, un’alternativa – forse di corto respiro – alla più spartana vita montanara. Purtroppo, con lo spopolamento, i servizi ai cittadini si sono ridotti veramente in montagna. Il turismo, in gran parte fondato sulle seconde case, non basta a compensare ciò che si è perso.

Negli anni '70, in analogia con quanto avvenuto in altri territori europei, in sintonia con il movimento anticoloniale internazionale, una forte riscoperta della cultura e della lingua occitana è stata portata avanti in particolar modo a livello musicale e culturale ma anche a livello politico. Va ricordata la figura di François Fontan (in occitano Francés Fontan), un grande occitanista di Nizza, trasferitosi a Frassino in Val Varacha, Fontan fu il fondatore del PNO (Parti Nationaliste Occitan) in Francia e del MAO (Movimento Autonomista Occitano) in Italia.

Il MAO è stato attivo indicativamente fino al 1985 ed ha ottenuto importanti risultati per la tutela dell’Occitania, come il riconoscimento della madrelingua occitana con la Legge 482/99.

Negli anni di attività del MAO molti comuni hanno messo la bandiera occitana assieme a quella europea ed italiana dai balconi dei municipi, mentre altri hanno inserito il doppio cartello del nome del comune in italiano – occitano.

Nel XXI secolo, finito il ventennio in cui le autonomie sono state messe in pericolo dal grande equivoco leghista e nordista, è tempo che riparta l’azione politica occitanista. Il poco che è stato ottenuto, in termini di riconoscimento dell’identità occitana, non è infatti al sicuro, senza il ritorno alla politica.

Il compito principale del movimento autonomista occitano è in fondo semplice: l’autogoverno delle nostre valadas, attraverso istituzioni di autogoverno, che facendo rete fra di loro, dovrebbero avere una dignità cantonale almeno pari a quella di una provincia autonoma delle valli occitane.

Le montagne – non solo quelle occitane, perché il tema dell’autogoverno riguarda ogni territorio – devono poter gestire in autonomia le proprie risorse. Nessun altro, da fuori, ha il diritto di dirci come dobbiamo vivere! Perché la montagna è prima di tutto patrimonio e responsabilità di chi la vive!

Per questo, verso la fine degli anni Dieci, l’occitanismo ha iniziato a ristrutturarsi politicamente. Come Assemblada Occitana Valadas, in connessione con il movimento occitano interterritoriale, portiamo avanti questa prospettiva di autogoverno, insieme con le battaglie locali di ogni giorno, cercando di ottenere il massimo per il territorio! Un esempio è il nostro forte attivismo a favore della ferrovia Cuneo-Nizza, arrivando ad essere protagonisti della vittoria di questo antico bene comune al concorso "Luoghi del cuore" del FAI.

Siamo storicamente in fecondi rapporti con la Union Valdôtaine e, più recentemente, con i Liberi Elettori Piemontesi animati da Milian Racca.

Abbiamo avviato, grazie al lavoro comune nel Forum 2043, un progetto politico con Autonomie e Ambiente e con EFA, per riportare nel Parlamento europeo, le nostre istanze di autogoverno, insieme con tutti gli altri territori che resistono al centralismo italiano e francese.

Valadas, 25 marzo 2023

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Friuli paese antico e nuovo d'Europa

  • Autore: Clape di culture Patrie dal Friûl - 17 marzo 2023

La storia del Friuli è stata condizionata dalla sua posizione, all’intersezione tra il punto più settentrionale del Mediterraneo e la porta d’ingresso da Oriente alla penisola italiana. In corrispondenza di tale crocevia sono fiorite le tre grandi città portuali che hanno segnato la storia del Friuli: Aquileia, Trieste e la vicina Venezia.

La formazione del Friuli come entità storico-politico-culturale si può far risalire all’epoca longobarda (sec. VI-VIII). A Occidente il confine del Friuli lungo la valle del Piave e il corso del Livenza si è stabilizzato da secoli, mentre ad Oriente vi sono sempre state più incertezze, a causa della non coincidenza tra confini geografici, etnici, socio-economici e politico-militari.

Sulla formazione della lingua friulanavi sono teorie diverse. Secondo quella più tradizionale, essa sarebbe il risultato dell’influenza del sostrato celtico sul latino qui portato dai coloni romani, e quindi avrebbe oltre duemila anni; mentre, secondo altre, essa si sarebbe formata mille anni più tardi, nel contesto di relativo isolamento dal resto d’Italia della realtà politica autonoma del Principato patriarcale di Aquileia.

L’identità e le istituzioni friulano sopravvissero in parte anche sotto la dominazione veneziana, iniziata nel 1420. La grandissima maggioranza della popolazione ha continuato a il friulano, ed esistono anche fin dal XIV secolo documenti letterari scritti in tale lingua, anche se, come è avvenuto per molte altre nazioni, è solo nell’Ottocento che si avvia una robusta tradizione letteraria e la lingua diviene la base principale dell’identità territoriale.

Dopo le tragedie delle guerre mondiali e del regime fascista, nella nuova Repubblica si avviano i movimenti per il riconoscimento dei Friulani come comunità con pieno diritto all’autonomia politico-amministrativa e alla tutela della propria lingua.

Quest’istanza è divenuta più impellente a partire dagli anni ’70 e ha trovato una debole accoglienza da parte delle istituzioni solo alla fine dello scorso secolo.

La lingua è certamente uno dei fondamenti dell’identità friulana, ma si deve anche ribadire che per secoli il senso di appartenenza al Friuli ha avuto un carattere piuttosto politico-territoriale che linguistico. L’identità collettiva è un fenomeno complesso, multidimensionale. Accanto alla lingua, al territorio, all’organizzazione politica, giocano anche fattori più latamente culturali: costumi, riti, tradizioni, senso della storia e del destino comune, coscienza e volontà.

È ancora vivo, e prevalente in certi ambienti, un ‘idealtipo’ di friulano elaborato nel corso dell’Ottocento, che ha avuto nell’ ‘ideologia’ della Società Filologica Friulana la sua codificazione: il tipo (o stereotipo) del friulano «salt, onest, lavoradôr», essenzialmente modellato sulla figura archetipa del felix agricola, del ‘buon contadino’, con in più un’enfasi sul ruolo di queste terre di bastione della civiltà romana contro il mondo tedesco e slavo che preme dai confini.

Dall’ampia produzione letteraria, ideologica e saggistica sul carattere dei Friulani, fiorita in quest’ultimo secolo, ad opera sia dei Friulani stessi che di osservatori esterni, sembra di poter inferire un modello a cinque dimensioni. Il popolo friulano si caratterizzerebbe quindi per essere:

1. un popolo contadino, e quindi attaccato alla terra, vicino alla natura; organizzato in salde strutture familiari e in piccole comunità di paese; laborioso, ma anche dotato di capacità imprenditoriali; tradizionalista e fedele alla parola data;

2. un popolo cristiano, e quindi credente, inserito nella grande tradizione cattolica, dotato delle virtù della semplicità, dell’umiltà, dell’austerità, della capacità di sopportare con pazienza e fermezza le prove della vita;

3. un popolo nordico, quindi forte, grave, lento, taciturno, disciplinato, con senso dell’organizzazione e della collettività, ma con un sottofondo di tristezza esistenziale che trova conforto, oltre che nella laboriosità, anche nel vino, ed espressione nel canto corale;

4. un popolo di frontiera, collocato in una posizione esposta a rischi, temprato da una lunghissima storia di invasioni, saccheggi e battaglie; ma anche con la possibilità di aprirsi e relazionarsi positivamente con i vicini di altre culture, di mescolarsi con essi, di accoglierli ed esserne accolto;

5. un popolo migrante, perché nella modernità lo squilibrio tra popolazione e risorse costringe una quota di persone ad allontanarsi dalla patria, per cercare lavoro e sopravvivenza in altri paesi.

Nel dolore della partenza si rafforza l’amore, e nei disagi della lontananza si consolida un’immagine idealizzata del proprio paese. Nelle comunità di arrivo si ricreano ifogolârs e si mantengono la lingua e le tradizioni.

Tuttavia è da sottolineare che questo modello riflette, prevalentemente, una realtà storico-sociale abbastanza circoscritta: quella del Friuli grosso modo tra il 1870 e il 1970.

Ben poco possiamo dire della realtà più antica, medievale, perché la documentazione storico-archeologica sulla vita del popolo minuto è scarsissima, quasi inesistente. Le masse contadine sono ‘senza storia’, per definizione.

L’immagine dei Friulani che invece ci viene comunicata dalla documentazione storica dell’Evo moderno (secc. XV-XIX) è invece abbastanza diversa da quella tardo ottocentesca: il popolo friulano (cioè, in grandissima parte, i contadini) ci viene descritto spesso come riottoso, violento, neghittoso, indisciplinato. È certo l’immagine che ne hanno i padroni e i tutori dell’ordine, tendenti a enfatizzare questi aspetti negativi (lo stereotipo del villain, cioè del ‘cattivo’) più che quelli di segno opposto. Ma vi sono anche molte prove inoppugnabili di questo lato del carattere friulano di qualche secolo fa: storie di liti, banditismo, delitti, tumulti e insurrezioni. Per tutte, basti menzionare la «crudel zobia grassa» del 1511, la più violenta, prolungata ed estesa rivolta contadina dell’Italia rinascimentale.

Ovviamente queste speculazioni identitarie riflettono ormai assai poco il Friuli degli ultimi decenni, quello del dopo terremoto del 1976: un territorio altamente sviluppato, ricco, secolarizzato e mediatizzato. Un Friuli dove le masse di contadini non esistono più, sostituite da un 5% di moderni imprenditori agricoli; dove le campagne sono cosparse di insediamenti industriali; dove la maggioranza degli attivi è impiegata nel terziario, più o meno avanzato; dove resta l’emigrazione dei giovani laureati e dove è in corso l’immigrazione di gente proveniente da una settantina di paesi di tutto il mondo.

L’autonomismo in Friuli presenta caratteristiche originali, rispetto ad altri territori che erano, prima dell’unificazione, veri e propri stati, o almeno unità amministrative separate. Il problema friulano è stato quello di lottare per vedersi riconoscere una entità istituzionale e rappresentativa propria, senza farsi diluire in realtà amministrative o istituzionali eterogenee, ove comunque i centri di decisione erano e sono collocati all’esterno della realtà friulana, con la conseguenza che il proprio futuro è stato costantemente messo in discussione o comunque compromesso da logiche di potere politico, economico e culturale esterne e spesso contrapposte agli interessi friulani.

Mentre altrove, come in Trentino, in Val d’Aosta, in Alto Adige, in Catalogna, in Baviera, le realtà istituzionali sono state, da un certo punto in poi, saldamente controllate dalle rispettive comunità, da secoli il Friuli è stato inserito in ambiti territoriali eterogenei dove comunque i centri di decisione erano collocati al suo esterno: a Venezia per secoli, poi nell’era degli stati moderni nelle rispettive capitali, infine nella nuova Repubblica in una regione dotata sì di autonomia speciale ma il cui baricentro politico è Trieste.

L’autonomismo friulano ha dovuto pertanto muoversi verso la ricostruzione di una realtà istituzionale friulana, dotata di strumenti funzionali alla sua sopravvivenza come patrie.

Certamente sono importanti le azioni dirette ad elevare i gradi di autonomia della Regione Friuli Venezia Giulia, sorta ad opera dell’impegno delle rappresentanze parlamentari del Friuli in seno alla Costituente, che poi è stato stravolto dall’esigenza di attribuire un ruolo all’allora Territorio libero di Trieste, ma ancora più importanti sono le iniziative e le politiche dirette alla crescita autonoma del Friuli come entità dalle caratteristiche originali.

Il percorso cui l’autonomismo friulano ha dato contributi importanti passa attraverso numerose tappe di cui tre sono fondamentali: la costituzione della Università di Udine come autonomo centro di formazione e di ricerca, risultato di un lungo processo storico condotto avanti con tenacia dalla comunità e dalle istituzioni friulane; il riconoscimento della lingua friulana da parte dello stato italiano con la legge 482/1999, con il quale il friulano è passato da uno stato indefinito di parlata locale, il cui carattere di lingua era riconosciuto solo a livello scientifico, al rango di lingua degna di forme importanti di sostegno e di tutela, alla pari delle comunità linguistiche che hanno alle loro spalle uno stato sovrano (la tedesca, la francese, la slovena, l’albanese, la greca); infine la costituzione della Comunità delle Province Friulane, a cura delle Province di Pordenone e di Udine, che potrebbe trasformarsi in un potente strumento di crescita della comunità friulana.

Questi risultati sono il frutto di un lungo lavoro di animazione e di impegno politico portato avanti da personaggi importanti che hanno dato vita a organizzazioni e movimenti politici di notevole peso.

Si pensi alle prime iniziative lanciate da Achille Tellini negli anni Venti, alla costituzione nel secondo dopoguerra dell’Associazione per l’Autonomia Friulana di Tiziano Tessitori, al Movimento Popolare Friulano di Gianfranco d’Aronco (la cui costituzione in partito avrebbe potuto cambiare completamente il panorama politico del Friuli), al Movimento Friuli di Fausto Schiavi e di don Francesco Placereani, al Comitato per l’Università Friulana di Tarcisio Petracco, alla Lega Friuli dei primi anni. E questo elenco non è certamente esaustivo.

Da una di queste iniziative, nota come “I laboratori dell'autonomia”, che ha visto l'adesione di tanti sindaci, persone del mondo della cultura e della vita sociale friulana, è iniziato alla fine dello scorso decennio un processo di riappropriazione in termini contemporanei della necessità dell’autogoverno.

L’esito dei laboratori è stata la nascita del “Patto per l'autonomia” un partito territoriale che ha adottato un motto antico, quello pronunciato da Giuseppe Bugatto, deputato friulano al Parlamento di Vienna, il 25 ottobre 1918:

CHE NISSUN DISPONI DI NÔ, SENSA DI NÔ

(CHE NESSUNO DISPONGA DI NOI SENZA DI NOI)

Parole antiche, ma che il Patto ha fatto vivere in una organizzazione moderna, plurale, inclusiva, attenta alle differenze territoriali e culturali di quel microcosmo che è la regione Friuli – Venezia Giulia. Basti pensare che nel Patto sono in uso ben quattro lingue:

Patto per l'Autonomia (italiano)

Pat pe Autonomie (friulano)

Pakt Za Avtonomijo (sloveno)

Pakt für die Autonomie (tedesco delle comunità di Sauris, Timau e Val Canale, da Pontebba a Tarvisi)

Il Patto per l’Autonomia, che si era costituito come movimento politico pochi mesi prima, alle elezioni regionali del 2018 ha ottenuto il 4,09% dei consensi, corrispondenti a 23.696 voti, eleggendo come consiglieri regionali Massimo Moretuzzo e Giampaolo Bidoli.

Il resto è nella cronaca politica dell’ultimo lustro. Il friulano autonomista, civico e ambientalista Moretuzzo (classe 1976, un figlio del Friuli del dopo terremoto), dopo cinque anni di impegno come capogruppo nel parlamento regionale, è oggi candidato presidente, con il sostegno di gran parte del centrosinistra, alle elezioni regionali previste per il 2-3 aprile 2023. Il Patto per l’Autonomia, inoltre, è alla guida, con proprio personale politico esperto, della rete interterritoriale di Autonomie e Ambiente ed è rappresentato nel bureau della famiglia politica europea degli autonomisti e dei territorialisti, la Alleanza Libera Europea (ALE, meglio nota come European Free Alliance, EFA).

Le persone impegnate nel Patto a livello territoriale, statale ed europeo continuano a lavorare politicamente per assicurare un futuro al Friuli, perché sia uno dei paesi nuovi d’Europa e del mondo, in questo XXI secolo.

Udine, 17 marzo 2023

a cura della Clape di culture Patrie dal Friûl (associazione culturale Patria del Friuli) - https://www.lapatriedalfriul.org/

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I lavori del Forum 2043

Sono partiti i lavori del Forum 2043, l'iniziativa politico-culturale che Autonomie e Ambiente ha deciso di ospitare sul proprio sito, in una sezione apposita. Il progetto si propone di consegnare alle prossime generazioni i valori di una Repubblica delle Autonomie e di una Europa delle regioni, dei popoli e dei territori. Si vorrebbe arrivare a celebrare il centenario della Carta di Chivasso, il 19 dicembre 2043, avendo contribuito a costruire un moderno decentralismo, capace di mobilitare non solo gli storici autonomismi, ma una più vasta rete di movimenti civici, ambientalisti, localisti, impegnati per il buongoverno e l'autogoverno dei propri territori.

Sono già stati pubblicati contributi di intellettuali e attivisti come Gino Giammarino, Piercesare Moreni, Claudia Zuncheddu. Il coordinamento del Forum 2043 è affidato a Mauro Vaiani. Sono attesi contributi, prevalentemente dall'esterno della rete di Autonomie e Ambiente.

L'indice degli approfondimenti è disponibile a questo link: https://www.autonomieeambiente.eu/forum-2043 .

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I paesi nuovi che vogliamo

  • Autore: Contributo a cura di Gino Giammarino, Piercesare Moreni, Mauro Vaiani, Claudia Zuncheddu - 18 luglio 2022

Forum 2043
Versoi 100 annidellaCarta di Chivasso(19 dicembre 2043):
spunti, pensieri e azioni per costruire insiemei paesi nuovi in cui vogliamo vivere

Contributo Giammarino – Moreni – Vaiani – Zuncheddu

pubblicato il 18 luglio 2022

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Sommario

1 Il solco che circoscrive il campo decentralista

2 Lontani dal nazionalismo “italiano”

3 La nostra Europa e il nostro internazionalismo

 

1 Il solco che circoscrive il campo decentralista

1.1 Il nostro campo autonomista, o come forse sarebbe meglio definirci in questo XXI secolo, modernamente decentralista, è ampio e inclusivo, consentendo a persone e gruppi molto diversi di mettersi alla prova.

1.2 Vi abitano a pieno diritto, e sono anzi una delle novità più importanti del nostro tempo, una moltitudine di realtà civiche, ambientaliste, autonomiste innovative e popolari, guidate da leader locali che potrebbero essere definiti autonomisti amministrativi, perché aspirano a una catena di controllo più corta da parte degli elettori sui propri eletti, al fine di avere un maggior controllo sul futuro dei propri territori.

1.3 Resistono le realtà identitarie, per le quali l’appartenenza a un territorio, la lingua, le tradizioni, la storia sono ancora la spinta principale alla propria azione politica autonoma.

1.4 Ci sono ancora autonomisti più o meno esplicitamente “egoisti”: di fronte al centralismo dello stato italiano, della tecnocrazia europea, delle istituzioni della globalizzazione, essi rischiano di attardarsi a difendere idee e progetti del passato, il proprio orticello organizzativo, spesso subalterni a retoriche stantie sulla cosiddetta “competizione” tra territori (semplificazione fuorviante di un pensiero liberale classico pericolosamente reciso dal suo originale contesto geopolitico, storico, istituzionale); il segreto di Pulcinella di una moderna azione politica autonomista e decentralista è che nessun territorio “merita” o “è favorito” da un processo di autonomia serio e responsabile, a scapito degli altri, al contrario tutti i territori possono e quindi devono sperimentare la benedizione dell’autogoverno.

1.5 Ci sono persino gli orfani di partiti del secolo scorso, che trovano nella nostra posizione, da sempre naturalmente estranea ai bipolarismi dominanti e quindi spesso confusa con un malinteso “centrismo”, un luogo di pensiero e di azione; peraltro dobbiamo essere nitidi con molti sé-dicenti centristi: negli antichi partiti popolari le convinzioni autonomiste erano forti e benvenuto è il loro risveglio, ma nella nostra famiglia autonomista e decentralista non c’è posto per gli epigoni della partitocrazia centralista e delle loro rendite di posizione.

1.6 La sfida che lanciamo è niente di meno che quella di scomporre tutte le concentrazioni di potere, attraverso l’impegno politico-elettorale, la lotta nonviolenta nelle piazze e nei luoghi della vita associata, il lavoro politico-culturale per risvegliare le coscienze; a chi la accetta sono richieste qualità non comuni di competenza, senso di sacrificio, elasticità mentale, coraggio culturale, capacità di compromesso politico, adesione a una etica di responsabilità, più che di convinzione.

2 Lontani dal nazionalismo “italiano”

2.1 Avendo come fondamento la formidabile vocazione universale all’autodeterminazione, all’autogoverno di tutti dappertutto, a partire dai livelli più vicini al cittadino, sappiamo con chiarezza di non essere nazionalisti italiani.

2.2 Più in generale, per quanto si possa essere eurocritici, siamo distanti dal sé-dicente sovranismo dei vecchi stati europei; questa è una affermazione netta in un periodo in cui in tanti paiono giocare con le posizioni e le convinzioni, spesso mutevoli come le stagioni.

2.3 Il nazionalismo degli stati europei ha calpestato territori e popoli conquistati, annessi, spogliati della propria identità e delle proprie ricchezze; ha voluto omologare e non valorizzare le differenti storie, culture, lingue spesso con la violenza, quasi sempre con la menzogna.

2.4 La storia italiana, dal Regno alla Repubblica, è stata segnata da una lunga deriva nazionalista, centralista, autoritaria, che critichiamo radicalmente; a tale deriva imputiamo le dissonanze cognitive, le omissioni, le disonestà che ci tormentano sin dai libri delle scuole elementari e che, protratte negli studi superiori e nei media di stato, producono una narrazione “italiana” mai sincera, sempre omissiva ed omertosa dei fatti storici, quindi responsabile dell’attuale vergognosa situazione di ignoranza di massa.

2.5 Il nazionalismo italiano ci ha condotto a vivere in uno stato che ha praticato colonialismo interno e internazionale; si è gettato nella “Inutile strage” della Prima guerra mondiale contro la volontà dei suoi popoli e del suo parlamento; come notò amaramente Piero Gobetti, il fascismo è l’autobiografia di questa “nazione”.

2.6 Il nazionalismo italiano tenta oggi di riemergere accodandosi a chi, giustamente, si batte per il riappropriarsi di sovranità territoriale nei confronti di realtà sovranazionali elitarie e tecnocratiche (l’Unione Europea e non solo); di fronte a questo neonazionalismo è particolarmente necessario distinguere tra falsi amici e veri nemici delle comunità locali e territoriali e delle loro aspirazioni.

2.7 A questo proposito alcuni territori, come Catalogna, Scozia, Corsica, Sardegna, sono salutari pietre d’inciampo per narrazioni tendenziose: a parole molti si stanno rapidamente convertendo a giusti ideali di sovranità alimentare, energetica, economica e sociale, in nome di un ritrovato e necessario rispetto della diversità e della biodiversità, ma proprio da come ci si posiziona rispetto all’autogoverno di questi territori sapremo distinguere tra chi è con noi, dalla parte dei territori, o contro di noi, per fedeltà alle vecchie piramidi statali.

3 La nostra Europa e il nostro internazionalismo

3.1 Da quando l’essere umano è diventato industrialmente capace di genocidio ed ecocidio, poche concentrazioni di potere mondiale stanno distruggendo l’ambiente a ritmi insostenibili e, non contente di questo avvelenamento quotidiano, hanno accumulato la capacità di distruggere il pianeta decine di volte; questo potrebbe e dovrebbe spaventare e quindi bastare per spingere all’adesione di massa agli ideali dell’autonomismo e a un moderno e lungimirante decentralismo universale, che possa incrinare ovunque nel mondo tali insopportabili concentrazioni di potere e di ricchezze.

3.2 Se sovrapponessimo le cartine geografiche della storia recente degli stati moderni (quelli che hanno inventato la rigidità della sovranità e dei confini, oltre che il concetto di “integrità territoriale”, cose totalmente sconosciute all’umanità premoderna), ci accorgeremmo che la geografia degli stati moderni sia sempre cambiata; gli stati e i loro confini non sono né naturali, né durevoli, né tanto meno immutevoli, ma solo una mera fotografia di un momentaneo predominio sociale e politico.

3.3 Sarebbe più velleitario ritenere che i confini attuali debbano restare rigidi, piuttosto che prepararsi al nuovo che ci viene incontro: la semplice e radicale volontà di autogoverno di ciascuna persona non come individuo isolato, ma come membro di una comunità territoriale, prevista da studi sulla mobilitazione sociale come quelli di Karl Deutsch sin dagli anni Sessanta e in realtà anche da molto prima, da mille altre voci localiste, anticolonialiste, indipendentiste.

3.4 Le aspirazioni all’autogoverno non riguardano solo storiche piccole patrie e nazioni oppresse d’Europa, come Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Fiandre, Vallonia, Corsica, Sardegna; l’esigenza di scomporre gli stati così come li abbiamo conosciuti nel secolo XX è una esigenza universale, diffusa in tutto il pianeta; nel disegno di una nuova e diversa ricomposizione, diventa fondamentale il concetto del "rispetto” per tutte le identità, affinché non ve ne siano di dominanti o soccombenti, colonizzatrici e colonizzate, dando così garanzia di credibilità per il nostro impegno presente e futuro.

3.5 A chi ancora teme derive violente della disintegrazione geopolitica, ricordiamo che il paradigma del futuro sarà il consensuale distacco tra Cechia e Slovacchia e più in generale l’autoscioglimento dell’URSS e del Patto di Varsavia, avvenuti in modo incredibilmente pacifico; la violenza, piuttosto, è sempre stata scatenata dalla volontà egemonica delle capitali nei confronti delle proprie periferie(la Serbia contro il Kosovo, l’Etiopia contro il Tigrè, la Spagna contro la Catalogna, ma gli esempi potrebbero essere tanti e andrebbero approfonditi e compresi uno per uno); in ogni caso – lo scriviamo proprio mentre è in corso la terribile guerra fra la Federazione Russa e l’Ucraina – la guerra moderna stessa è drammaticamente inaccettabile per l’umanità globalizzata e insostenibile per la sopravvivenza del pianeta; quindi o poniamo fine a questi vecchi stati centralisti e autoritari, o finirà la nostra storia umana.

3.6 Non abbiamo alcuna necessità di legittimare l’uno o l’altro degli stati esistenti, o immaginati, o astrattamente ritenuti più giusti; il compito autonomista è far prevalere il primato della autodeterminazione delle persone e delle loro comunità; prima vengono le persone e le comunità che possono e vogliono autogovernarsi, poi eventualmente i confini; questo è un dato ineludibile di realtà, non una presa di posizione ideologica.

3.7 Non ripetiamo qui distinguo e valutazioni su ciò che è oggi la casa europea: è evidente che così com’è piace poco e molto dovremo lavorare per migliorarla; non vogliamo alcun “superstato” europeo, né vogliamo che un neocentralismo europeo sostituisca il centralismo italiano che combattiamo; tuttavia crediamo nella confederazione europea perché è in essa che i territori, anche le più piccole matrie, possono trovare albergo e prosperare.

3.8 Non ci sono consentiti sogni isolazionisti e non ci sono confini che possano reggere all’urto della globalizzazione; un futuro di minore esposizione agli eccessi della globalizzazione per ciascuna Heimat, sarà reso possibile da un maggior protagonismo dei nostri territori sulla scena europea, nella cooperazione e nella solidarietà internazionale, nell’impegno per la pace universale.

3.9 Le forze politiche territoriali, civiche, ambientaliste, autonomiste d’Europa, in particolare quelle raccolte nella famiglia politica della Alleanza Libera Europea, ALE (European Free Alliance, EFA), ma anche altre forze civiche e politiche, avranno il dovere, nei decenni a venire, di rapportarsi e cooperare strettamente con le forze decentraliste, e quindi antimilitariste e anticolonialiste, che sono presenti in ogni altra regione del mondo, anche dentro le cosiddette grandi potenze (USA, Cina, Federazione Russa e le altre); è giunto il tempo di pensare a una Decentralism International.

3.10 Se c’è un futuro per il mondo è nel moltiplicarsi di realtà confederali sul modello della Svizzera, non il pericoloso riproporsi dello scontro tra vecchie e nuove potenze nucleari; per dirla con Victor Hugo: «La Suisse, dans l'histoire, aura le dernier mot».

 

Contributo collettivo per l’avvio del Forum 2043, a cura di

Gino Giammarino (Napoli)

Piercesare Moreni (Trentino)

Mauro Vaiani (Toscana)

Claudia Zuncheddu (Sardegna)

 2022 07 18 collettivo Forum 2043

 

 

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I pionieri cisalpini del federalismo

  • Autore: Roberto Gremmo - Piemonte, 8 ottobre 2023

Questo contributo apre uno spiraglio sulle origini di un federalismo cisalpino che ha radici antifasciste, cristiane, popolari, antitotalitarie. Ci è stato inviato da Roberto Gremmo, storicopiemontesedell’autonomismo e non solo: insieme alla cara moglie Anna Sartoris, recentemente scomparsa, sono stati essi stessi pionieri di autonomismo e federalismo nella Repubblica Italiana.

 

L’idea federalista che durante il Ventennio fascista era stata la bandiera di pochi esuli all’estero o nelle isole di confino, tornò a essere propagandata pubblicamente nei giorni caotici seguiti alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943.

Curiosamente, uno dei primi gruppi di cui esistono tracce (fra le carte della http://www.fondazionecipriani.it/) si trova a Roma e nel 1943 ha una sede in via Cicerone ed assume la denominazione di “Unione Autonomista Italiana settentrionale” diffondendo un proclama rivendicando, pur in un’Italia unita, l’autogoverno per la “regione naturale padano-veneta con le sue cinque sottoregioni, Liguria, Piemonte, Lombardia e Tre Venezie” dando identica struttura alle “terre italiane centrali e meridionali nonché alle isole”. Dei promotori nulla sappiamo, se non che si trattava di gente del Nord e che erano in buoni rapporti con il sicilianista Andrea Finocchiaro Aprile.

L’autonomismo e il senso antico che i territori italiani avessero bisogno di quell’autogoverno che lo stato sabaudo aveva negato erano quindi sentimenti che tornavano a circolare. Nella tragedia della guerra e nel naufragio del fascismo, i rapporti di forza tra centro e periferia furono messi in discussione.

A Roma, il 9 settembre 1943, si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) costituito dai principali partiti e movimenti antifascisti, ma nel Nord si costituì all’inizio del 1944 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), con sede nella città di Milano, che aveva ulteriori articolazioni territoriali. In Toscana si costituì il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN, si veda https://www.istoresistenzatoscana.it/).

Il sacerdote partigiano romagnolo, don Lorenzo Bedeschi, nome di battaglia “Zerlone de Sechi”, seguace di don Romolo Murri e del primo cristianesimo sociale, fa stampare a Napoli il 15 aprile 1943 il numero unico “L’Italia Cisalpina”, foglio che si presenta come voce dell’italianità settentrionale e si rivolge alle genti del Nord, solleticandone l’orgoglio per chiedere loro, forti delle proprie virtù civili, di unirsi per cacciare lo straniero invasore nazista.

1943 04 15 Italia Cisalpina di don Bedeschi Zerlone

Queste sono solo delle tracce, mentre poco dopo troviamo un federalismo esplicitamente ispirato alla tradizione svizzera e in consonanza con i valori della Carta di Chivasso del 1943, con la storia dell’autonomismo trentino espressa dalla ASAR e con altre esperienze analoghe, dal Friuli alla Sicilia.

Nei giorni della Liberazione, il 27 aprile 1945 esce a Como “Il Cisalpino”, foglio voluto da Tommaso Zerbi, che poi diventerà deputato della Democrazia Cristiana. La testata si presentò come “settimanale federalista” e fu davvero indipendente e coraggiosa.

Fra i collaboratori troviamo un giovane Gianfranco Miglio, il giornalista Pio Bondioli ma anche l’accademico Giorgio Braga, che si differenziava dagli altri autori per un suo pionieristico e audace territorialismo, per il quale “iconfini convenzionalie talvolta naturali delle nostre regioni, così come li conosciamo”possono essere superati dall’espansione industriale e urbanistica (si veda Tracciati - Rassegna tecnica mensile della ricostruzione, marzo-aprile 1946, su https://eddyburg.it/archivio/le-regioni-economiche-dellalta-italia/).

Grazie a loro, il piccolo foglio politico diventa lo strumento per dibattere tutti i temi essenziali della dottrina federalista, combattere le spinte centraliste e ogni burocratico e soffocatore accentramento. Ci si apre anche alla critica della formazione, con lacrime, lutti e sangue, dello Stato risorgimentale, cercando di dimostrare che solo le autonomie locali potevano essere alla base del nuovo ordinamento democratico.

Purtroppo, il messaggio scomparve ben presto dall’agenda politica. Come è stato sottolineato, fra gli altri, dalla storica Claudia Petraccone, la situazione interna e internazionale si stava evolvendo rapidamente e le forze politiche centrali, pur non abbandonando del tutto il tema delle autonomie in sede costituente, furono assorbite dall’amministrazione della continuità dello stato e del suo schieramento internazionale nel blocco atlantico.

Il “Cisalpino” doveva durare solo pochi mesi, coi suoi redattori assorbiti dalle necessità della lotta antitotalitaria ma anche perché il prevalere del centralismo partitocratico non favoriva certo idee di autogoverno dei popoli e dei territori.

“Il Cisalpino” moriva ancora in fasce già alla fine del 1945. L’affidamento dei pionieri del federalismo cisalpino nello spazio di agibilità politica concesso dai partiti, in particolare dalla Democrazia Cristiana, doveva rivelarsi sterile.

Lo spazio politico per una confederazione autonomista c’era, ma restò sguarnito, oppure eterodiretto dai partiti italiani. In alcune zone si radicarono movimenti d’ispirazione esplicitamente federalista, come l’ASAR nel Trentino e il Movimento friulanista, o implicita, come il “Partito dei Contadini” piemontese (con il motto “Da Noi” e l’uso delle camicie verdi, che poi collaborerà con il Movimento Comunità di Adriano Olivetti). Nella stessa capitale morale si fecero sentire i partigiani dissidenti di “Milan ai Milanès”, che però furono subito etichettati come eversivi e messi fuori legge.

Un seme, che ha lasciato radici che non sono mai state del tutto recise, fu gettato dall’avvio, in contemporanea con l’avvento della nuova Repubblica, della “Federazione delle Genti Alpine”, fondata dal “Movimento autonomistico regionale trentino”, “Unione federalista liguria intemelia”, “Union valdôtaine”, “Movimento autonomistico tirolese”, “Lega dei comuni valtellinesi” e dal “Movimento popolare friulano”.

Roberto Gremmo

 

Approfondimenti:

Porata, Alessandro. "LA FEDERAZIONE DELLE GENTI ALPINE. BREVE ESPERIENZA DI UNA LEGA MONTANA TRA RIVENDICAZIONI AUTONOMISTE E ALLEANZE INTERREGIONALI", Università Cattolica del Sacro Cuore, XXIX ciclo, a.a. 2015/16, Milano, [http://hdl.handle.net/10280/19574]

“Padania separatista : in lotta contro Roma” - pubblicazione promossa dall’Associazione Gilberto Oneto con interventi di Ettore Beggiato, Elena Bianchini Braglia, Roberto Gremmo, Giovanni Polli, Gianfrancesco Ruggeri, Annalise Vian - Bologna : Leonardo Facco, 2020

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I pionieri cisalpini del federalismo” di Roberto Gremmo - pubblicato l’8 ottobre 2023

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Il centralismo paralizza, soffoca e infine uccide

  • Autore: Una pagina memorabile di Alexis de Tocqueville - Brandizzo, Caivano e Chivasso, 1 settembre 2023

Mentre la Repubblica delle Autonomie è in lutto per gli operai ferroviari di Brandizzo, che non esitiamo a chiamare vittime del centralismo, e osserviamo con tristezza che per "bonificare" una borgata distrutta dal centralismo, Caivano, si è invocata la passerella dei vertici del governo centrale e centralista, abbiamo voluto questo piccolo ma emblematico testo sul Forum 2043, che è come un interludio. Se arrivati fin qui abbiamo cominciato a capire, come lo capì Tocqueville all'alba della modernità industriale, che la vita umana, per restare tale, deve continuare a essere fondata sulla responsabilità dell'autogoverno al più basso livello possibile, allora vale la pena andare avanti, per salvare la nostra dignità umana, non solo la vita materiale e l'integrità del creato. Altrimenti, immaginatevi la peggior distopia e, siatene certi, ve la daranno. O territorialismo, o barbarie.

 

"Cosa mi importa, dopotutto, che vi sia un'autorità sempre pronta, che veglia a che i miei piaceri siano tranquilli, che vola davanti a me per allontanare i pericoli dal mio cammino, senza che io abbia bisogno di pensare a tutto questo; se questa autorità, nel tempo stesso che allontana le più piccole spine sul mio passaggio, è padrona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e l'esistenza al punto che quando essa languisce, languisce tutto intorno a lei, che tutto dorme, quando essa dorme, che tutto perisce quando essa muore? Vi sono in Europa certe nazioni in cui l'abitante si considera come una specie di colono indifferente al destino del luogo in cui abita. I più grandi cambiamenti sopravvengono nel suo paese senza il suo concorso; egli non sa precisamente quel che è successo e ne dubita, poiché ha inteso parlare dell'avvenimento per caso. Non solo, ma il patrimonio del suo villaggio, la pulizia della sua strada, la sorte della sua chiesa e della sua parrocchia, non lo toccano affatto; egli pensa che tutte queste cose non lo riguardano in alcun modo, perché appartengono ad un estraneo potente, che si chiama il governo. Quanto a lui, non è che l'usufruttuario di questi beni, senza spirito di proprietà e senza idee di miglioramento. Questo disinteresse di se stesso si spinge tanto in là che se la sua sicurezza o quella dei suoi figli è compromessa, invece di cercare di allontanare il pericolo, egli incrocia le braccia per attendere che l'intera nazione venga in suo aiuto. Quest'uomo, del resto, benché abbia sacrificato completamente il suo libero arbitrio, non ama l'obbedienza più degli altri; si sottomette, è vero, al beneplacito di un impiegato, ma si compiace di sfidare la legge, come un nemico vinto, quando la forza si ritira. Così oscilla senza tregua fra la servitù e la licenza."

(fonte: Alexis de Toqueville, De la Démocratie en Amérique, Parigi, 1835-40. Edizione italiana: La democrazia in America, Rizzoli, Brescia,
1995, pp.96-97)

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A cura del gruppo di studio che coordina il Forum 2043 - Brandizzo, Caivano e Chivasso, 1 settembre 2043

L'immagine del "centralismo burocratico" di corredo a questa pagina è tratta da https://jovencuba.com/

 

La deuxième gauche

  • Autore: Ione Orsini e Mauro Vaiani - Vecchiano e Prato, 20 gennaio 2024, San Sebastiano

Coloroche seguono il nostro Forum 2043sono impegnati a prepararsi per leelezioni europeedel 9 giugno 2024insieme alla nostra famiglia politicaALE-EFA e al patto Autonomie e Ambiente.Crediamo che possa essere d’ispirazione questo riconoscimento a una delle sorgenti culturali, una delle diversità che contribuisce alla nostra sorellanza di diversità. Grazie a Ione Orsini e a Mauro Vaiani per questo omaggio a una sinistra socialista autonomista e libertaria di cui l’Europa e l’Italia hanno bisogno oggi come ieri, in questo tempo dove vecchie e nuove forme di centralismo autoritario sono più scatenate che mai.

La deuxième gauche

Un omaggio all’umanesimo socialista e autonomista di Michel Rocard

di Ione Orsini e Mauro Vaiani*

Vecchiano e Prato, 20 gennaio 2024, San Sebastiano

"... la Deuxième gauche, décentralisatrice, régionaliste,
héritière de la tradition autogestionnaire,
qui prend en compte les démarches participatives des citoyens,
en opposition à une Première gauche,
jacobine, centralisatrice et étatique."

Michel Rocard, Congrès de Nantes du PS, 1977

 

L’espressione "Deuxième gauche" si diffuse nell’ultimo quarto del XX secolo per segnalare, proprio dalla Francia (l’Hexagone, lo stato centralista per antonomasia, forgiatodai giacobini),alle forze progressiste di tutto il mondo, che è possibile un umanesimo socialista e autonomista, una sinistra amica delle autonomie personali, sociali e territoriali. “Seconda sinistra”, in contrapposizione alla “prima”, centralista e autoritaria, voleva dire “altra”, ma non necessariamente “nuova”, poiché una sinistra antitotalitaria, anticentralista, antiautoritaria, è esistita dai tempi della Gironda, di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), della primavera libertaria che attraversò la Spagna e soprattutto la Catalogna prima della reazione franchista alla fine degli anni Trenta del secolo scorso.

In tempi più vicini a noi, una “seconda sinistra” è stata necessaria per distinguersi dalla imbarazzante subalternità dei comunisti europei nei confronti del PCUS, ma anche in contrapposizione al bellicismo e al neocolonialismo di tante sinistre centraliste (basti ricordare la SFIO di Guy Mollet, forza della "prima sinistra", al potere nel 1956, che s’impantanò nell’atroce guerra d’Algeria).

Della “seconda sinistra” divenne un portavoce chiave Michel Rocard quando, nel congresso dei socialisti francesi del 1977 a Nantes, chiese al suo partito di abbracciare il regionalismo e l’autonomismo, recidendo una volta per tutte ogni commistione con il settarismo, l’estremismo, l’elitismo autoritario (quello marxista e leninista, ma non solo).

Michel Rocard (1930-2016) era stato sin da giovane un socialista riformista, autonomista, libertario, impegnato nel piccolo ma vivace e plurale Partito Socialista Unificato (PSU), una formazione che dava spazio a molte diversità: laici di sinistra, cattolici cristiano-sociali, ex-comunisti anti-stalinisti, socialisti riformisti che rifiutavano la repressione in Algeria, persone di origine trotskista e altri socialisti con radici anarchiche e libertarie.

La forza e l’originalità del suo pensiero si manifesta nel rapporto "Décoloniser la province" (decolonizzare la provincia) del 1966. Il documento era sulla scia di una lunga tradizione intellettuale anticentralista francese. Riecheggia l’opera di Jean-françois Gravier, Paris et le désert français (Parigi e il deserto francese) del 1947, che a suo tempo aveva fatto molto rumore. Si riconnette alla corrente girondina, che era stata spazzata via dal terrore giacobino nella Révolution française.

Il rapporto analizza lo squilibrio fra Parigi e le province francesi e vede in esso un “tratto coloniale”. Rocard formula un pensiero a noi familiare: "La clé du développement c'est la décision." (la chiave dello sviluppo è la [capacità di] decidere), che equivale a credere che senza potere politico locale di autodeterminazione, i territori non riescono a svilupparsi e prosperare.

Il testo diventò strumento di lotta politica contro quei socialisti e comunisti che si attardavano su posizioni centraliste (e, rispetto ai territori francesi d’oltremare, indulgevano in posizioni neocolonialiste, magari mascherate da “mission civilisatrice “, da parte della patria della Déclaration des droits de l'homme et du citoyen de 1789, una posizione che purtroppo è ancora oggi dominante in sinistre centraliste come quella di Jean-Luc Mélenchon).

Partì da quel rapporto un movimento culturale prima ancora che politico, che ispirerà le future, sia pure timide, riforme decentraliste in Francia, che condussero all’istituzione delle regioni. Se i dipartimenti e la stessa figura dei prefetti sono in discussione in Francia, come in Italia, è merito anche di quel coraggioso e lungimirante documento.

Per Michel Rocard era naturale che il socialismo implicasse autonomie personali, sociali, territoriali, uno sviluppo democratico necessario per ridurre il potere di pochi su molti. Questo socialismo per le autonomie non era solo francese. Influenzava tutta la sua generazione, i leader socialisti di cui era amico sin da giovane, grazie alle fitte relazioni internazionali del socialismo: Bettino Craxi, Willy Brandt, a Felipe González, Mário Soares, Andreas Papandreou, Salvador Allende.

Quando il socialismo francese si riunì in un partito più ampio, quello che poi sarà guidato da François Mitterrand, la “deuxième gauche” diventò una corrente importante ma purtroppo non dominante. Tuttavia Michel Rocard continuò il suo impegno, con battaglie concrete e di successo per la decolonizzazione della Nuova Caledonia, per l’autonomia della Corsica, per il regionalismo, per un’Europa unita ma fondata sulla sussidiarietà, per i redditi minimi d’inserimento, per servizi sociali diffusi.

Michel Rocard avrebbe potuto fare molto di più per smontare lo stato giacobino, se non ci fosse stata l’ingombrante e conservatrice influenza di François Mitterrand, che nelle elezioni europee del 1994, per ridimensionare il socialismo autonomista di Rocard, arrivò a sostenere la lista liberal-radicale di Bernard Tapie.

Una volta eletto nel Parlamento europeo, Rocard, continuò a impegnarsi sui temi sociali, per i giovani, per la libertà d’informazione. Fu rieletto anche nel 1999 e nel 2004.

Verso la fine del suo lungo servizio pubblico, nel 2009 Rocard fu nominato ambasciatore della Francia nei grandi negoziati internazionali per la tutela dei poli dell’Artico e dell’Antardide. In questi ultimi anni s’impegnò molto per la tutela dell’ambiente e per il futuro del pianeta, ma anche per criticare gli eccessi neoliberisti che stavano rendendo l’Unione Europea e il mercato unico un ambiente ostile per le piccole e medie imprese, per i ceti medi, per le nuove generazioni (fra l’altro, si oppose alla direttiva dell'Unione Europea 2006/123/CE, la famigerata “Direttiva Bolkestein”, approvata ed emanata nel 2006, così chiamata dal nome di Frits Bolkestein, uno dei membri della Commissione europea guidata da Romano Prodi, che ne fu il propugnatore).

Anche dopo la scomparsa di Michel Rocard, il 2 luglio 2016, gli ideali della “deuxième gauche” continuano a vivere, influenzando il mondo sindacale, le associazioni civiche, le organizzazioni ecologiste, gli autonomisti delle regioni e dei territori, non solo in Francia.

Rocard volle essere seppellito a Monticello in Corsica, il borgo che era stato caro anche al “babbo” della nazione corsa, Pasquale Paoli, tanto era l’amore che aveva conservato per quella piccola màtria che aspira, come è diritto di ogni territorio, al pieno autogoverno.

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Fonti e inviti all’approfondimento

- https://michelrocard.org/ (progetto di valorizzazione del lavoro politico e culturale di Michel Rocard gestito in collaborazione con la Fondation Jean-Jaurès)

- https://michelrocard.org/app/photopro.sk/rocard/publi?docid=357232#sessionhistory-ready (Décoloniser la province)

- https://www.lemonde.fr/archives/article/1966/12/20/le-socialisme-doit-avoir-priorite-sur-le-regionalisme-estime-m-michel-rocard-qui-demande-d-autre-part-la-suppression-de-l-institution-prefectorale_2684365_1819218.html

- https://it.euronews.com/2016/07/02/e-morto-michel-rocard-ex-premier-francese-sotto-mitterrand-aveva-85-anni

- https://www.rivistailmulino.it/a/michel-rocard (Michele Marchi)

- https://fr.wikipedia.org/wiki/Deuxi%C3%A8me_gauche

- https://fr.wikipedia.org/wiki/Michel_Rocard

- https://it.wikipedia.org/wiki/Michel_Rocard

- https://www.toupie.org/Dictionnaire/Deuxieme_gauche.htm

- https://www.cairn.info/revue-le-debat-2019-1-page-182.htm

- https://it.wikipedia.org/wiki/Bettino_Craxi

- https://france3-regions.francetvinfo.fr/corse/corse-retour-sur-le-discours-de-michel-rocard-en-avril-1989-a-l-assemblee-nationale-2524200.html

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* Ione Orsini, attivista socialista civica e autonomista, è comoderatrice di OraToscana (insieme a Cristiano Pennesi, comoderatore). Mauro Vaiani è, oltre che coordinatore della segreteria interterritoriale di Autonomie e Ambiente, il garante di OraToscana.

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Le màtrie di un’altra Italia

  • Autore: Massimo Angelini (Edizioni Temposospeso) - dal Minceto di Ronco Scrivia, 1 gennaio 2024, Capodanno e Giornata internazionale della pace

Passata l’importante ricorrenza degli 80 anni della Carta di Chivasso, abbiamo deciso di aprire l’anno 2024 rilanciando la mappa delle màtrie, realizzata dalle edizioni Temposospeso, a cura dello studioso territorialista Massimo Angelini. E’ la carta di un’altra Italia, che rappresenta la ricchezza delle diversità e biodiversità delle nostre regioni storiche, comunità culturali, terre identitarie, piccole patrie anzi, appunto, màtrie. La carta è giunta alla sua seconda edizione, ma resta aperta al contributo di tutti, studiosi, attivisti, amministratori locali. Contributo che non può mancare da parte di coloro che condividono con il nostro Forum 2043 la sfida dell’incontro e della collaborazione tra civismo, ambientalismo, bioregionalismo, storici autonomismi, territorialismi contemporanei, impegnati per il bene delle generazioni future.

La carta delle màtrie di un’altra Italia

(tratto dalla premessa alla guida della seconda edizione, edizioni Temposospeso, Minceto di Ronco Scrivia, 2023)

C’è un’Italia che la geografia politica e amministrativa ignora, un’Italia di piccole patrie, anzi màtrie (come la lingua-madre e la terra-madre), sub-regioni, terre identitarie, bioregioni, case comuni, nicchie linguistiche, luoghi omogenei per ambiente o per storia o per cultura, talvolta grandi come piccole regioni, talvolta piccole come lo spazio che lo sguardo può abbracciare da un campanile; c’è un’Italia dove prossimità e vicinato forse vogliono dire qualcosa e il locale è un portato di cultura quando, però, non degrada nel localismo, in uno spazio meschino di paura e chiusura, in uno spazio di autocompiacimento attraverso la costruzione dell’altro, il foresto, l’estraneo, lo straniero; c’è un’Italia fatta di molte terre, più grandi dei singoli comuni, meno dei territori amministrativi, multicolore come l’abito di Arlecchino, dove, però, nessun rombo è uguale agli altri; un’Italia che molti conoscono ma che forse per la prima volta qui viene rappresentata. Un’Italia composta di terre, di màtrie definite nel tempo per ragioni di omogeneità ambientale, per questioni di storia politica laica o ecclesiastica (le diocesi), intorno alla diffusione di una lingua locale o di una sua declinazione, separate da fiumi o dislivelli, o da coste e crinali o da altri confini meno visibili, meno reali, eppure veri per l’incidenza che hanno avuto nella vita delle persone e nella costruzione degli immaginari locali.

Anche questa seconda edizione è inevitabilmente incompleta e approssimativa, con numerose informazioni da rivedere, imprecisioni da correggere; ma è anche un’occasione per iniziare una riflessione su quei territori che in qualche misura definiscono un’appartenenza locale per ambiente, immaginario, lingua, abitazione, desiderio (jus cordis, questo è ciò che dovrebbe bastare per essere o diventare nativi di un luogo: né jus sanguinis, né jus soli, solo jus cordis), e permettono ai membri di una collettività di dire ‘io vengo da…’, ‘io vivo in…’; è una edizione per la quale mi aspetto critiche costruttive, osservazioni, proposte di integrazione, inclusione, modifica. Insomma, lettrice o lettore, ti chiederei di non affliggermi per le imprecisioni che certamente troverai, ma di scrivermi i

tuoi suggerimenti (qui: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.), così, in prospettiva di una prossima edizione, gli errori li correggeremo insieme.

L’idea viene da lontano, dai primi anni 1980, quando, attraverso la rivista Etnie, avevo trovato una carta ‘Aproximació a l’Europa de les Nacions’, realizzata dal Centre Internacional Escarré per a les Minories Ètniques i les Nacions (CIEMEN) di Barcellona – che aveva intercettato la mia attenzione, richiamandomi su un altro modo di pensare l’Europa e, più in generale, di suddividere lo spazio geografico al di qua dei sistemi ufficiali di ordinamento. Questa idea, da adattare su altri criteri all’Italia, l’ho accarezzata più volte fino a decidere – durante la clausura del 2020 – di darle una forma definita, placando nello stesso tempo una spiccata propensione alla pignoleria. Sì, perché ne serve tanta, di pignoleria, per collocare e scontornare i 7.982 comuni che compongono l’Italia e disegnare oltre 500 partizioni territoriali (per la precisione, 581).

La definizione territoriale è stata fatta in minima parte sulla base delle mie conoscenze, un po’ sulle indicazioni ricevute da corrispondenti degni di fiducia, soprattutto sui dati rilevati attraverso l’Enciclopedia Treccani, Wikipedia e altri siti; ed è stata ottenuta usando come unità di aggregazione i confini dei singoli comuni, sia quelli interamente coinvolti nella definizione di una terra, sia quelli per i quali è interessata solo una parte, la prevalente, del territorio municipale. Per alcune aree d’Italia ho proposto una suddivisione più dettagliata, per altre meno: questo dipende solo dalla quantità di dati raccolti e conferma il carattere sempre perfettibile di questo lavoro . C’è ancora da osservare che la maggior parte delle suddivisioni territoriali messe in evidenza rientra nella categoria delle terre identitarie, delle màtrie o come altrimenti piaccia chiamarle, ma alcune sono solo circoscrizioni amministrative (come lo sono, per esempio, certe ‘unioni di comuni’) o nascono da una politica promozionale e turistica (così le varie coste e riviere, ancora per suggerire un esempio) oppure sono espressione di una matrice socio-urbanistica che esula dai riflessi identitari (penso alle conurbazioni, alle cinture e ai retroterra urbani), e queste ultime categorie – amministrative, promozionali, urbanistiche – le ho aggiunte solo dove non ho trovato traccia di terre identitarie per il piacere di campire l’intera Repubblica senza lasciare spazi vuoti.

Massimo Angelini
scritto nel Minceto di Ronco Scrivia
pubblicato sul Forum 2043 a Capodanno
Giornata internazionale della Pace, 1 gennaio 2024

2024 01 01 dettaglio territori Italia centrale dalla carta Matrie

Per conoscere Massimo Angelini

E’ nato a Genova e vive con Esther Weber nel Minceto di Ronco Scrivia, sui monti del capoluogo ligure. Ha scritto e pubblicato su storia delle mentalità, formazione delle comunità locali, tradizione rurale, cultura della biodiversità, antropologia filosofica. Ha fondato e coordinato l’associazione Consorziodella Quarantina per la terra e la cultura rurale e la Rete Semi Rurali. Cura ogni anno gli almanacchi rurali Il Bugiardino e Il Miraluna: il primo destinato alle terre liguri, il secondo al resto d’Italia. Ha diretto la casa editrice Pentàgora dal 2012 al 2022. Nel 2023 con Esther ha fatto nascere la casa editrice Temposospeso.

Oggi è conservatore dell’Istituto Mazziniano di Genova.

Si definisce di “pochi rimorsi e pochi rimpianti”, curioso di quello che riserva il tempo che resta.

Fra le persone a cui deve molto, ricorda Pavel A. Florenskij, Ivan Illich, Christos Yannaras, James Hillman, Marko Rupnik, Jean-Claude Michéa.

Per conoscere la sua avventura intellettuale come moderno territorialista e non solo: http://www.massimoangelini.it/.

 

2024 01 01 particolare trinita Rublev

Un augurio d’inizio anno dal Forum 2043

Il 2024 sarà un anno cruciale per studiosi, attivisti, amministratori locali che seguono il nostro Forum 2043, per il nostro impegno di unire le diversità per promuovere una società fondata sulle autonomie personali, sociali, territoriali, quindi veramente umana. Ci sono le europee, che vivremo insieme alla nostra famiglia politica EFA e al patto Autonomie e Ambiente. Ci saranno elezioni in diverse regioni. Siamo attesi, prova ancora più impegnativa, all’impegno per il rinnovo di migliaia di amministrazioni comunali, nelle quali c’è sempre più bisogno del nostro patrimonio di civismo, ambientalismo, storico autonomismo, moderno territorialismo. Ci impegneremo perché il Forum 2043 sia fonte di ispirazione e formazione per tutti coloro che ci vorranno provare sul serio, a lanciare un messaggio chiaro, di speranza e di pace, alle generazioni future: o l’autogoverno al più basso livello possibile, oppure la rassegnazione a essere sudditi in una società percorsa da centralismi (tecnologici, economici, militari, politici) sempre più autoritari. In poche parole: o decentralismo, o servitù.

Il gruppo di studio che coordina il Forum 2043
Prato, 1 gennaio 2024, Capodanno – Santa Maria Madre di Dio

 

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Le parole vive di Chivasso

Salvate nelle vostre agende l'invito a questo seminario pubblico, promosso dal Forum 2043, per sabato 11 marzo 2023, dalle ore 16 (attenzione, l'orario d'inizio è stato aggiornato):

PAROLE VIVE
PER LE AUTONOMIE E L'AMBIENTE

Lettura pubblica della Carta di Chivasso e testimonianze su ciò che essa tramanda ancora oggi di essenziale a chi vuole difendere l’acqua, la terra, la salute, le autonomie personali, sociali, territoriali, per le nostre comunità locali e per le generazioni future

Sarà con noi Massimo Moretuzzo (Patto per l’Autonomia Friuli – Venezia Giulia), insieme con attivisti e intellettuali del civismo, dell'ambientalismo, dell'autonomismo impegnati in ogni territorio per la Repubblica delle Autonomie.

Prenotazioni d’intervento sul canale Telegram del Forum 2043: https://t.me/Forum2043

Per restare aggiornati sull'evento:

https://www.facebook.com/events/502898198487883/

Informazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

Con questa iniziativa, avviamo un percorso che ci accompagnerà tutto questo anno 2023, che è l'anno dell'80° anniversario della Carta di Chivasso del 19 dicembre 1943. Per arrivare preparati all'evento, segnaliamo alcuni video realizzati tre anni fa dalla webtivù della forza sorella Union Valdôtaine in occasione del 77° anniversario della Carta di Chivasso:

 

 

 

Omaggio alla Catalogna e alla Svizzera

  • Autore: Giancarlo Pagliarini - Barcellona, 23 dicembre 2017 - Chivasso, 23 dicembre 2023

Proprio nei giorni in cui onoravamo gli 80 anni della Carta di Chivasso e si allargava il patto Autonomie e Ambiente, grazie all’apporto dell’Alleanza per l’Autonomia, Giancarlo Pagliarini (che dell'Alleanza è presidente onorario) ci ha inviato una sua raccolta di appunti della fine del 2017, che ci riporta in Catalogna nei giorni drammatici della repressione centralista del governo spagnolo, e ci ricorda di guardare alla Svizzera, per il futuro del nostro confederalismo. Sono passati ormai più di sei anni, ma lo scritto è assolutamente attuale e anzi importante per prepararci al confronto politico-elettorale del 2024, contro tutti i centralismi, per il confederalismo, per l’Europa dei popoli, per la pace e la prosperità di tutti i territori. Negli appunti di Giancarlo Pagliarini è citato Raül Romeva, già ministro catalano ai tempi del referendum di autodeterminazione, poi prigioniero politico incarcerato e oggi uno dei due spitzenkandidaten di EFA per le elezioni europee 2024, insieme a Maylis Roßberg.

Omaggio alla Catalogna e alla Svizzera

In questa fine 2017, Madrid ha sostituito il Governo eletto dai cittadini catalani con dei suoi rappresentanti e ha messo in prigione, oltre ai politici accusati di “disobbedienza”, anche i presidenti delle associazioni culturali catalane. Ho amici a Barcellona, che sono anziani e moderati, ma hanno paura quando pensano a ciò di cui è capace Madrid. Ci parlano di continue provocazioni, come quella dello scorso sabato 21 aprile all'ingresso dello stadio di Madrid per la finale Barcellona-Siviglia della Coppa del Re, quando la polizia ha vietato l'ingresso ai tifosi del “Barca” che indossavano una maglia gialla. Perché il giallo è il colore simbolo della volontà di autogoverno della Catalogna. Assurdo, incredibile, come siamo potuti arrivare a questo livello di repressione?

Nel 1931 era stata proclamata la Repubblica Catalana all’interno della Federazione iberica. Lo voglio ricordare perché dà fastidio leggere che i Catalani solo adesso vogliono più autonomia o la secessione perché sono diventati “ricchi” e non vogliono mantenere i territori più poveri. È una sciocca semplificazione.

La proclamazione del 1931 aveva anche allora spaventato il governo. Quei signori, a mio giudizio molto più civili di Mariano Rajoy e del re Filippo VI, mandarono da Madrid a Barcellona tre ministri con il compito di trovare una mediazione. Fu così che nacque la Generalitat de Catalunya, dotata di un’ampia misura di autogoverno. Purtroppo, com’è noto, conclusa la Guerra civile spagnola nel 1939, la dittatura militare franchista abolì le istituzioni catalane. Più di 200.000 catalani andarono in esilio. Il presidente della Catalogna Lluis Companys venne assassinato. Venne vietato l’uso della lingua catalana e iniziò un lungo ciclo di oppressione. In pratica da quel momento in Catalogna dovevi avere il permesso di Madrid anche per respirare.

Morto Franco nel 1975, però, di autonomie si è dovuto tornare a parlare, perché esse erano e sono nella storia e nella geografia della Spagna (e in realtà di ogni paese del mondo). Con il compromesso costituzionale del 1978, lo stato spagnolo è tornato a essere formato da 17 comunità (spesso coincidenti con le regioni storiche) e da 2 città autonome (Ceuta e Melilla), ponendo fine, almeno in linea di principio, al centralismo franchista.

Il primo statuto di autonomia della Catalogna non soddisfaceva pienamente il popolo catalano, perché non ne riconosceva pienamente l’identità e la diversità all’interno di una Spagna e di un’Europa plurali.

Nel 2003 la stragrande maggioranza dei membri del parlamento catalano s’impegnò a varare uno statuto di autogoverno più avanzato. Non c’era alcuna volontà di secessione unilaterale. Il primo ministro spagnolo, allora il socialista Zapatero, si era impegnato a supportare il nuovo statuto della Catalogna. Il nuovo testo fu varato in Catalogna nel 2005 (con 120 voti su 135 membri del parlamento locale) e presentato a Madrid. Nel maggio del 2006 le due camere del parlamento spagnolo lo approvarono, non senza averlo ritoccato per ridurre alcune autonomie e quindi non senza polemiche. Tuttavia il testo emendato da Madrid fu comunque approvato dai cittadini catalani con il referendum del 18 giugno 2006 e promulgato dal re di Spagna. La Catalogna veniva finalmente riconosciuta come una nazione all’interno dello stato spagnolo. Nel 2006, al meglio delle mie conoscenze, i secessionisti in Catalogna non erano più del 10% della popolazione.

Purtroppo, però, il centralismo non si dà mai per vinto. Quattro anni dopo, il 28 giugno 2010, la corte costituzionale spagnola (con una decisione presa da una maggioranza di 6 membri contro 4) prese la gravissima decisione di riscrivere 14 articoli dello statuto di autonomia approvato quattro anni prima dal parlamento di Madrid e dai cittadini catalani. Oltre a riscrivere i 14 articoli, decretò anche la “reinterpretazione” di altri 27. La “nazione catalana” fu cancellata. Questo rigurgito di spagnolismo era promosso dal Partito Popolare di Mariano Rajoy, in particolare.

Cosa ne hanno ricavato i centralisti, da questa corsa a chi è più “spagnolo”, più nazionalista, più centralista, più monarchico? Da allora in Catalogna il numero degli indipendentisti ha cominciato a crescere. Persone di sinistra, centro, destra, movimentiste e indipendenti, hanno unito le loro forze fino a formare una stabile maggioranza assoluta di catalani che vogliono il pieno autogoverno in una Europa diversa. Altro che rivendicazioni economiche, altro che lotta per trattenere un po’ di tasse su un territorio (peraltro economicamente già prospero). Come sta avvenendo ovunque nel mondo globalizzato, scatta in tante persone comuni la voglia di fare la differenza, di salvare la propria diversità, di avere più dignità e più autogoverno.

Ricordiamo un episodio fra i tanti: alla “Diada” (festa nazionale dell’identità catalana) dell’11 Settembre 2012 più di 1,5 milioni di cittadini (su circa sette milioni di residenti) avevano protestato contro la svolta centralista decisa dalla corte costituzionale e avevano cantato slogan che inneggiavano alla Catalogna come stato autonomo all’interno dell’Unione Europea.

Dopo le elezioni catalane del novembre 2012, 107 membri del Parlamento su 135, in reazione al comportamento centralista di Madrid, si espressero a favore dell’organizzazione di un referendum per l’indipendenza. Alla Diada dell’11 Settembre 2013 gli attivisti per l’autogoverno della Catalogna formarono una catena umana di 400 km dal nord al sud del territorio.

L’allora presidente della Generalitat, Artur Mas, tentò di negoziare col governo di Madrid lo svolgimento di una consultazione per l’autodeterminazione della Catalogna, trovandosi di fronte a un muro, eretto dal re e dalle istituzioni centrali.

Nel gennaio 2014 il Parlament della Catalogna aveva chiesto formalmente al governo di Madrid di trasferire a Barcellona i poteri necessari per organizzare un referendum sulla indipendenza, come Westminster aveva appena fatto con la Scozia. Richieste simili, prima del referendum del 1 ottobre 2017, erano state reiterate ben 18 volte.

L’11 settembre 2014 si svolse la Diada numero 300 (perché la data di riferimento è sempre stata la data storica dell’11 Settembre 1714, la resistenza catalana contro l’impero asburgico di allora). I discorsi ufficiali erano stati fatti alle ore 17.14 del pomeriggio e da allora al minuto 17.14 delle partite del Barcellona al Camp Nou tutto lo stadio, come un sol uomo, grida “Independencia”. A quella Diada avevano partecipato 1,8 milioni di persone. Con i colori giallo oppure rosso delle magliette dei partecipanti, che formavano una bandiera catalana vivente, formata da cittadini (locali e provenienti da tutta Europa), era stata formata a Barcellona una enorme “V”, che stava per “VOTO“. Il vertice era nella nuova Plaça de les Glòries Catalanes e le due gambe erano lungo la Diagonal e lungo la Gran Via. Intanto da Madrid sempre il solito assordante silenzio, come se non fosse successo niente.

A differenza di Londra, Madrid ha continuamente rifiutato il permesso di svolgere un referendum. Per i Catalani e per i loro concittadini europei che credono nella parola “libertà” questo è stato un comportamento assurdo.

Il parlamento catalano il 18 Settembre 2014 decise di “consultare i cittadini”. Il 27 Settembre il presidente Artur Mas aveva firmato il decreto per la consultazione, che poi avverrà il 9 novembre. Solo due giorni dopo la firma, il 29 settembre, ecco che la corte costituzionale interviene per sospendere anche la consultazione popolare decisa dal parlamento catalano, ignorando che, fra l’altro, il 4 ottobre 2014 ben 920 sindaci catalani, su un totale di 947, erano andati a Barcellona ad esigere la consultazione fissata per il 9 novembre.

Dieci giorni dopo, il 14 Ottobre 2014, la corte costituzionale aveva sospeso anche la “consultazione popolare”. Scattò un piano di riserva: si decise di chiamarla “partecipazione dei cittadini alle decisioni” . Questa era una procedura prevista dallo statuto di autonomia, quello decapitato dalla corte costituzionale il 28 Giugno 2010.

Il 4 Novembre 2014 la corte costituzionale sospendeva anche la “partecipazione dei cittadini alle decisioni”. Incredibile ma è successo: in Europa, in questa secolo XXI, uno stato continua a impedire a cittadini di esprimersi, pur vigendo un diritto europeo che tutela forse poco le autonomie ma sicuramente i diritti politici di tutti i cittadini.

In reazione alle sospensive della corte centralista, intervenivano molte organizzazioni non governative catalane. Prendevano in mano la situazione e organizzavano loro il referendum, che si è regolarmente svolto il 9 novembre 2014. Hanno votato più di 2,3 milioni di cittadini, con questi risultati: 80,76% per l’indipendenza, il 4,54% per lo status quo, il 10,07% per cambiare ma non necessariamente con un processo di indipendenza. Il resto, 4,63%, erano schede nulle.

Tre giorni dopo, il 12 novembre 2014, Madrid rompeva il silenzio e Rajoy diceva che quello del 9 novembre non era stato un voto democratico ma un atto di propaganda politica. Avevano votato in 2,3 milioni ma questa non era considerata una informazione importante. Dopo meno di due settimane, il 21 novembre 2014, lo stato spagnolo incriminava il Presidente Mas, due dei suoi ministri e alcuni funzionari perché non avevano bloccato il referendum e per altri “delitti”.

Il 27 Settembre 2015 si tengono nuove elezioni in Catalogna. I partiti a favore dell’indipendenza avevano il 47,8% dei voti. Il 13,1% era andato a partiti a favore del principio di “autodeterminazione”. In totale, queste due aree politiche avevano una solida maggioranza del 60,9%. Gli “unionisti” attaccati al centralismo di Madrid avevano raccolto solo il 39,1%.

Nel marzo del 2017 l’ex presidente Artur Mas era stato formalmente condannato per il referendum del 9 novembre 2014 e ancora sono in corso altri 400 processi per gli stessi “delitti”, cioè per aver voluto far votare i cittadini.

Il 22 Maggio 2017 il nuovo presidente Puigdemont, il vicepresidente Junqueras e il ministro degli esteri Romeva (nella foto sotto) erano andati ancora una volta formalmente a Madrid a chiedere di poter far esprimere i cittadini, ottenendo da Rajoy lo stesso monotono rifiuto.

2017 Raul Romeva spiega

A questo punto il 9 giugno 2017 Carles Puigdemont annunciava che i Catalani dovevano poter votare, che si sarebbe svolto un referendum e che la domanda sarebbe stata “Vuoi che la Catalogna diventi una Repubblica indipendente?”

Il parlamento catalano aveva approvato la legge sul referendum che si sarebbe poi svolto il 1 Ottobre 2017. Era la legge numero 19/2017, composta da 34 articoli. L’articolo 1 faceva riferimento ai diritti civili e politici, economici, sociali e culturali approvati dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 1966. L’articolo 4, comma 4, prevedeva che, se avessero vinto i “SI” “dins els dos dies següents a la proclamació dels resultats oficials per la Sindicatura Electoral, celebrarà una sessió ordinària per efectuar la declaració formal de la independència de Catalunya, concretar els seus efectes i iniciar el procés constituent”. Il comma 5 invece prevedeva nuove elezioni se avessero vinto i “NO”.

Il 1 ottobre 2017 hanno stravinto i “SI” e il 27 ottobre il parlamento catalano ha approvato la dichiarazione di indipendenza.

Un’amica che ha partecipato come osservatore internazionale al referendum del 1 ottobre ha scritto: “Quanti occhi lucidi ho incrociato domenica scorsa…Ho visto abbracciare le urne elettorali, ho visto anziani in sedia a rotelle accompagnati dai figli e ho visto anziani infermi che di fronte all’urna hanno voluto alzarsi, sorretti dai volontari...” . Ecco, è necessario capire per quali motivi tante persone sono andate a votare il primo di ottobre, rischiando e prendendo le botte della Guardia Civil. Le ho viste coi miei occhi, assieme ad altri 200 “osservatori internazionali”, parlamentari o ex parlamentari degli altri stati membri dell’UE. Ci chiedevano di non andare via perché altrimenti “ci avrebbero picchiati”. E da altri seggi ci telefonavano: “Venite, aiuto, stanno arrivando, quelli della Guardia Civil. Ci picchiano. Portano via le urne...”. Incredibile, eppure questo scenario da regimi del secolo scorso, è questa Europa nell’anno 2017.

Su una cosa voglio insistere: non ho mai sentito un catalano lamentarsi di tasse o altro, ma solo e sempre di dignità e autogoverno. L’Unione Europea non può non discutere di questi argomenti o parlarne solo alla luce di interessi, o di paure, o di appartenenze politiche.

Dopo la dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre 2017, applicando per la prima volta nella storia l’articolo 155 della costituzione spagnola , il governo di Mariano Rajoy ha sostituito il governo eletto dai Catalani con dei suoi rappresentanti, che hanno poi organizzato nuove elezioni.

Le nuove elezioni si sono regolarmente svolte il 21 dicembre 2017 e ancora una volta i partiti indipendentisti hanno conquistato la maggioranza. Il resto ormai è cronaca quotidiana. Madrid continua a provocare e a usare la forza. Aiutata dal silenzio o addirittura dalle parole di appoggio di Tajani e di altri vertici della UE.

Dal 16 ottobre, tra i tanti altri, sono in prigione Jordi Cuixart, il presidente della associazione culturale Omnium (costituita negli anni 60 con l’obiettivo di studiare e promuovere la lingua e la cultura catalana) e Jordi Sànchez, presidente della associazione culturale ANC (Associazione Nazionale Catalana), costituita nel 2011. I due Jordi sono indagati di “sedizione”, un reato punito con decenni di carcere.

Si possono dire tantissime cose a favore o contro quello che sta succedendo in Catalogna, ma penso che la politica di “non parlarne” sia decisamente sbagliata: a mio giudizio riguarda molto da vicino tutta Europa e certamente non “solo la Spagna”. Il nostro sistema è basato su mercato e democrazia, da Teheran in giù abbiamo tanti nemici ma siamo capaci di farci male anche da soli. La mia impressione è che i signori che stanno guidando l’auto dell’UE sono concentrati sullo specchietto retrovisore ma non guardano né davanti né di lato.

Davanti e intorno a noi, invece, c’è tanto altro. E non è neppure lontano, basta andare in Svizzera. Come Barcellona e Madrid, anche Interlaken e Lugano sono diversissimi. Anche loro non parlano la stessa lingua. Ma a differenza di Barcellona e Madrid lavorano assieme per trasferire a figli e nipoti un sistema paese che funziona. E ci riescono. Perché in quello stato federale i cittadini sono informati e consapevoli. Riescono a fare la differenza. C’è sana competizione a tutti i livelli. Il sistema svizzero è molto meno permeabile ai centralismi del nostro tempo. La forma direttoriale di governo, fondata sulla ben nota “formula magica” (la responsabilizzazione di tutte le forze nel governo federale), è senza dubbio di gran lunga superiore ai sistemi politici in cui due parti politiche si alternano ciclicamente al potere, in una apparente competizione che è in realtà una gara a chi è più centralista.

Il modello svizzero ci insegna a trasformare gli attori, anche quelli più competitivi, in una squadra (Parag Khanna. “La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”. Capitolo 3: Sette presidenti sono meglio di uno).

Le chiusure nazionalistiche ed egoistiche caratterizzano i vecchi stati-nazione, non certo la Catalogna, o il Veneto, o la Scozia, o altre parti d’Europa stanche della antistorica, assurda e irrazionale cultura centralista.

C’è da liberarsi dei miti del centralismo. Nel 1994 Kenichi Ohmae scriveva: “I governi nazionali tendono tuttora a considerare le differenze tra regione e regione in termini di tasso o modello di crescita come problemi destabilizzanti che occorre risolvere , anziché come opportunità da sfruttare. Non si preoccupano di come fare per aiutare le aree più fiorenti a progredire ulteriormente , bensì pensano a come spillarne denaro per finanziare il minimo civile. Si domandano se le politiche che hanno adottato siano le più adatte per controllare aggregazioni di attività economiche che seguono percorsi di crescita profondamente diversi. E si preoccupano di proteggere quelle attività contro gli effetti “deformanti” prodotti dalla circolazione di informazioni, capitali e competenze al di là dei confini nazionali. In realtà non sono queste le cose di cui ci si deve preoccupare. Concentrarsi unicamente su questi aspetti significa mirare soprattutto al mantenimento del controllo centrale, anche a costo di far colare a picco l’intero paese, anziché adoperarsi per permettere alle singole regioni di svilupparsi e, così facendo, di fornire l’energia, lo stimolo e il sostegno per coinvolgere anche le altre zone nel processo di crescita.” (Kenichi Ohmae “La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economia regionali”, Baldini e Castoldi 1994).

La storia sta dando ragione a Kenichi Ohmae e a tanti altri pensatori decentralisti. Noi italiani in particolare ne sappiamo qualcosa. Il tema è questo: ha ancora senso il mito del controllo centrale dello stato? Voglio ricordare l’articolo 3 della Costituzione Svizzera. Ecco il testo: “I Cantoni sono sovrani per quanto la loro sovranità non sia limitata dalla Costituzione federale ed esercitano tutti i diritti non delegati alla Confederazione”. Dunque lo Stato centrale non è il “padreterno” come da noi e come in Spagna. La sovranità è dei cittadini, e quindi degli enti territoriali. Lo stato è al loro servizio e svolge i compiti che loro, i titolari della sovranità, via via decidono di delegargli. E naturalmente come e quando vogliono possono decidere, con lo strumento della “iniziativa popolare”, di cambiare la costituzione e togliere o modificare le deleghe. Con questa cultura e con questa costituzione la Svizzera è il paese più competitivo del mondo davanti a grandi (Stati Uniti, secondi) e a piccoli Stati (Singapore, terzo), secondo la recente (26 Settembre 2017) classifica di competitività del World Economic Forum.

Abbiamo bisogno di ispirarci al federalismo, anche per avere una Europa più forte, che sappia parlare, quando è necessario, con una sola voce. Una sola voce che non ci sarà mai finché i vecchi stati-nazione non si “frantumeranno volontariamente in entità politiche più piccole per le quali un’effettiva unione federale europea diventi non solo una convenienza ma un’urgente necessità” (Michele Boldrin su Linkiesta 1 Novembre 2017).

Finché il potere sarà concentrato nelle capitali dei vecchi grandi stati-nazione l’Unione Europea non parlerà con una voce sola e non parteciperà compiutamente alla politica internazionale. Continuerà a funzionare poco e male, a spendere cifre assurde per la propria pompa e le tecnocrazie, essere strattonata da una parte e dall’altra dagli interessi degli stati-nazione. E parole come libertà, responsabilità, efficienza e competitività continueranno a suonare estranee nei corridoi di Bruxelles.

Giancarlo Pagliarini
23 dicembre 2017 – pubblicato sul Forum 2043 il 23 dicembre 2023)

 

La foto in testa all'intervento di Giancarlo Pagliarini è tratta dal sito https://swissfederalism.ch/giancarlo-pagliarini-il-federalismo-agevolerebbe-litalia/

 

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Parole vive per le autonomie e l'ambiente - Tutti gli interventi e le conclusioni politiche

Sabato 11 marzo 2023 si è tenuto il seminario online organizzato dal Forum 2043, in collaborazione con Autonomie e Ambiente, sul tema "Parole vive per le autonomie e l'ambiente - Rilettura integrale della Carta di Chivasso". Siamo già entrati nell'ottantesimo anno da quando la Carta fu scritta, nel 1943, eppure le parole di Chivasso sono vive, giovani, profumano di primavera per la democrazia, le autonomie, l'ambiente, la pace,  la libertà. Sono ancora essenziali per coloro che credono nella Repubblica delle Autonomie, nell'Europa dei popoli, in un mondo liberato da autoritarismi, colonialismi e militarismi.

Com'era nelle intenzioni degli organizzatori, il seminario ha rafforzato tutti i movimenti civici, ambientalisti, storicamente autonomisti, modernamente decentralisti, che hanno partecipato. Essi hanno il compito di portare avanti la visione del partigiano e martire Émile Chanoux e promuovere gli ideali di autogoverno dei territori, sussidiarietà verticale e orizzontale, autonomie personali, sociali e territoriali, che sono incisi nella Costituzione italiana, grazie all’impegno di padri costituenti come Giulio Bordon, Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Andrea Finocchiaro Aprile, Emilio Lussu, Aldo Spallicci, Tiziano Tessitori.

Le due sessioni, di un'ora ciascuna circa, sono state registrate e sono disponibili attraverso l'archivio politico multimediale di Radio Radicale:

https://www.radioradicale.it/scheda/693128/parole-vive-per-le-autonomie-e-lambiente

Sul canale YouTube di Autonomie e Ambiente è stata pubblicata, in estratto, la lettura pubblica integrale della Carta di Chivasso.

Come ha sintetizzato Roberto Visentin (presidenza Autonomie e Ambiente, AeA) nelle sue conclusioni, la Carta di Chivasso è ciò che ci unisce e ci definisce. I suoi valori ci sostengono e ci consentono di essere come acqua nel deserto della politica di questa incompiuta "Repubblica delle Autonomie". Le nostre sconfitte sono lezioni. Le nostre differenze sono attrezzi per affrontare e realizzare davvero, territorio per territorio, il grande cambiamento ambientale che ci aspetta.

Hanno partecipato, fra gli altri, Massimo Moretuzzo (nella foto), candidato alla presidenza del Friuli - Venezia Giulia alle elezioni dei prossimi 2-3 aprile 2023, esponente autonomista, civico, ambientalista del Patto per l'Autonomia, sostenuto da gran parte del centrosinistra. E' intervenuto anche Erik Lavevaz, già presidente della Valle d'Aosta, ed esponente dell'Union Valdôtaine, fortemente impegnato nel profondo rinnovamento in corso all'interno dello storico Mouvement e per la ricomposizione delle posizioni autonomiste, che devono riunirsi contro l'eterno ritorno del centralismo.

La rete di Autonomie e Ambiente (AeA) è una larga e inclusiva sorellanza di forze e gruppi politici territoriali attivi nelle varie regioni e province autonome della Repubblica Italiana. Con la collaborazione della famiglia politica europea degli autonomisti, l'Alleanza Libera Europea (ALE - European Free Alliance, EFA), si sta organizzando per la partecipazione alle elezioni europee del 2024.

Di seguito la sinossi completa dell'evento:

2022 07 06 repubblica delle autonomie ancora diversificata FORUM 2043 piccola

Sabato 11 marzo 2023 ore 16-18

Seminario pubblico

PAROLE VIVE

PER LE AUTONOMIE
E L'AMBIENTE

Evento organizzato dal Forum 2043
in collaborazione con Autonomie e Ambiente

Interventi

Parte prima ore 16-17

Mauro Vaiani (OraToscana – segreteria di Autonomie e Ambiente – coordinamento Forum 2043) - Apertura lavori

Eliana Esposito (Siciliani Liberi) – Canto dell’autogoverno

Mauro Vaiani – Introduzione

Sara Borchi e Stefano Fiaschi – Lettura integrale della Carta di Chivasso

Massimo Moretuzzo (Patto per l’Autonomia Friuli-Venezia Giulia)

Erik Lavevaz (Union Valdôtaine – già presidente della Valle d’Aosta)

Silvia Fancello "Lidia" (rappresentante EFA-ALE e referente AeA in Sardegna)

Alfonso Nobile, "Alessandro" (Siciliani Liberi)

Andrea Acquarone (autonomista ligure e animatore di "Che l'inse!")

Claudia Zuncheddu (Sardigna Libera, attivista per l'autogoverno e per la salute in Sardegna)

Parte seconda ore 17-18.00

Samuele Albonetti (Rumâgna Unida, già coordinatore del Movimento per l’Autonomia della Romagna)

Maria Luisa Stroppiana (Assemblada Occitana - Valadas)

Gino Giammarino (editore e attivista per l'autogoverno di Napoli e del Sud, Forum 2043)

Walter Pruner (autonomista trentino)

Silvia Fancello "Lidia" (rappresentante EFA-ALE e referente AeA in Sardegna)

Giovanna Casagrande (Sardegna Possibile)

Alfonso Nobile, "Alessandro" (Siciliani Liberi)

Milian Racca (Liberi Elettori Piemonte)

Roberto Visentin (vicepresidente europeo EFA-ALE, presidente AeA) – Conclusioni politiche

Mauro Vaiani – Saluti finali

A conclusione dell'evento si è lanciato un appello per le donne, la vita, la libertà di tutti, e per la pace, dappertutto, con l’ascolto della canzone Baraye di Shervin Hajipour nella versione remix di DJ Siavash (fonti: https://youtu.be/I0bEMX6Avp0 - https://djsia.com/)

Hanno mandato un messaggio perché non sono potute intervenire le persone amiche:

Alfredo Gatta (Pro Lombardia, vicepresidente di AeA)

Lucia Chessa (RossoMori - Sardegna)

Luana Farina Martinelli (Caminera Noa)

* * *

Per seguire gli sviluppi dell'evento è indispensabile iscriversi al canale Telegram del Forum 2043: https://t.me/Forum2043

Si ringrazia per la collaborazione tecnica e creativa: Renzo Giannini - Il Lampone - https://www.youtube.com/lorenxman

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Per l'autonomia della Romagna

  • Autore: Samuele Albonetti, autonomista romagnolo, membro del coordinamento del MAR - 16 febbraio 2023

La Romagna è una delle più antiche e meglio definite regioni della penisola italiana, ma nella Repubblica nata nel 1946 non ha ancora visto il riconoscimento della sua autonomia.

Si è formata oltre 1400 anni fa, al tramonto dell’Impero Romano. Mentre i Longobardi cominciarono ad occupare gran parte della penisola, una fra le poche entità che si opposero e con successo fu l'Esarcato di Ravenna, la cui area geografica corrisponde all’attuale Romagna.

Da quella lontana epoca storica fino ai giorni nostri la Romagna ha mantenuto proprie peculiarità culturali e sociali. E’ a tutti gli effetti un territorio riconoscibile come una regione storica d’Italia e d’Europa.

Allora, politicamente e amministrativamente, che è successo? Perché, fino ad oggi, non si è riconosciuta l’autonomia della Romagna?

Terminata la lunga dominazione pontificia, all'indomani dell'unità d'Italia, il nuovo stato monarchico, dominato da pulsioni centraliste e autoritarie, non riconobbe la Romagna nemmeno come dipartimento statistico, a causa del forte seguito che nelle città romagnole avevano gli ideali repubblicani. I Romagnoli furono repubblicani un secolo prima degli altri Italiani e ne pagarono le conseguenze.

Nel Novecento, però, emerse un moderno ideale romagnolista, cioè autonomista per la Romagna, ad opera dei bëb (babbi, padri) della Romagna, Giovanni Braschi e Aldo Spallicci, ideale che sopravvisse mentre infuriavano le terribili vicende della Grande guerra, del regime fascista, della Seconda guerra mondiale.

In sede di Assemblea Costituente, negli anni 1946 e 1947, le vivaci discussioni sull’avvio del processo di regionalizzazione della nuova Repubblica furono presto troncate. L’Italia era distrutta dalla guerra, i tempi della Costituente erano stretti, le esigenze di avviare la democratizzazione e la ricostruzione erano stringenti. La Romagna aveva dato i natali al dittatore Mussolini e anche questo non aiutò.

La proposta di una regione Romagna fu accantonata, così come le istanze autonomiste di altri territori come il Salento e il Molise (quest’ultimo territorio però vedrà riconosciuta la propria autonomia nel 1963).

I padri costituenti, tuttavia, lasciarono ai posteri l’art. 132 della Costituzione, allo scopo di lasciare in futuro la possibilità di riconoscere lo status di regione ad altri territori.

Nel Dopoguerra la battaglia romagnolista, infatti, non si esaurì, portata avanti da Aldo Spallicci fino alla sua morte nel 1973.

Negli anni successivi il tema dell’autonomia resta vivo. Se ne fa interprete un politico socialista, Stefano Servadei, prima come deputato e poi come consigliere regionale della Emilia-Romagna. A lui come a molti altri non sfugge che il nuovo ente è fortemente condizionato dalla politica bolognese (e dalle dinamiche politiche nazionali), oltre che fortemente sbilanciato sulle esigenze delle province emiliane, più grandi, più popolose, più industrializzate, meglio collegate con l’economia del Nord e dell’Europa.

Servadei, quando si rende conto che alla fine degli anni Ottanta il regionalismo italiano è cresciuto e che le istanze per la piena attuazione della Repubblica delle Autonomie sono mature, si fa promotore del Movimento per l’Autonomia della Romagna (M.A.R.) nel maggio del 1990, poi formalmente registrato con atto notarile il 9 marzo del 1991.

Nei decenni successivi, grazie al Movimento dell’on. Servadei, gli ideali autonomisti in Romagna hanno continuato a vivere e a diffondersi fra i cittadini. A metà anni Novanta, il M.A.R. ha raccolto oltre 89.000 firme volte a richiedere un referendum per il riconoscimento di una regione Romagna, distinta da Bologna e dalle province emiliane, sulla base della previsione dell'articolo 132 della Costituzione italiana.

Il romagnolismo poi, negli anni Duemila, è stato respinto dal ritorno in campo di potenti processi di verticalizzazione e centralizzazione della politica, proprio come altre culture autonomiste democratiche.

Anche in Romagna abbiamo visto scatenarsi un malcostume diffuso anche in altri territori: l’omaggio all’autonomismo in campagna elettorale, salvo poi ignorarlo del tutto durante il mandato di governo.

Il M.A.R. ha sempre privilegiato l’impegno politico-culturale, restando aperto, inclusivo, trasversale. I partiti hanno cercato di approfittare della simpatia popolare per l’autonomia della Romagna, spesso mostrando un sentimento autonomista di facciata, rivelando solo nel proseguo la loro profonda subalternità al centralismo politico (obbedendo a capi che potevano essere di volta in volta a Bologna, a Roma, a Milano).

Ora, questa ormai lunga esperienza maturata e la constatazione che l'obiettivo del riconoscimento istituzionale della Romagna come regione d'Italia e d’Europa non è, ahinoi, vicino, inducono a profonde riflessioni, critiche e autocritiche, oltre che alla ricerca di percorsi alternativi, anche approfondendo lo scambio d’esperienze e l’aiuto reciproco – in corso ormai da tempo – con altre avanzate, mature, competenti realtà autonomiste, quelle rappresentate in Autonomie e Ambiente e che partecipano a questo Forum 2043.

La Romagna ed i suoi cittadini non possono più aspettare che giungano risposte dai partiti tradizionali, ormai tutti centralisti (i peggiori quelli che pretendono di essere, a parole, addirittura “federalisti”).

Praticamente tutti i partiti – sinistra, centro, destra, movimenti – che hanno sin qui retto le amministrazioni locali in Romagna, si sono rivelati subalterni a poteri forti che li controllano da lontano.

Qualcosa deve cambiare e cambierà, per questa nostra aspirazione all’autonomia della Romagna, che viene da molto lontano ma che è oggi un progetto politico giovane, innovativo, popolare, d’esempio per l’Italia, e per l’Europa, e più necessario che mai.

Romagna,pubblicato il 16febbraio 2023

Samuele Albonetti

membro del Comitato regionale M.A.R.

(Movimento per l'Autonomia della Romagna)

A corredo di questo post la famosa cartina della Romagna dell'artista Giannetto Malmerendi

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Per la dignità del consigliere comunale

  • Autore: A cura di OraToscana - lunedì dell'Angelo, 10 aprile 2023

Un appello da OraToscana nel Forum 2043 per tutti i consiglieri comunali della Repubblica

Prato – Santa Luce – San Vincenzo – Siena – Vecchiano, lunedì dell’Angelo, 10 aprile 2023

Introduzione

Alle persone che vengono elette nei consigli di ogni comune vorremmo che fossero restituiti dignità e poteri, necessari non a loro ma alle comunità locali, nell’interesse di molti oggi e delle generazioni future, per migliorare concretamente le cose.

Chi conosce la storia delle gloriose istituzioni comunali, sa bene che nulla garantisce nel tempo una saggia amministrazione quanto la conoscenza reciproca, l’intimità vorremmo dire, la condivisione dello stesso destino fra governanti e governati, esattamente quella che è possibile, appunto, in un comune.

Coloro che possono ascoltare questo appello, discuterlo, migliorarlo, farlo proprio, diventarne attivisti e promotori, militanti solidali fra di loro fino al punto da trasformarsi in un movimento interterritoriale capace d’imporre le riforme necessarie, sono primariamente coloro che consiglieri comunali lo sono, lo sono stati, abbiano tentato di diventarlo, o almeno siano stati vicini a una persona investita di questo gravoso e, oggi, ingrato incarico.

logo Autonomie e Ambiente AeA OraToscana

Proposte

  1. Il consigliere comunale deve godere di permessi dal lavoro durante il suo mandato (e di un sostegno al suo reinserimento lavorativo al termine dello stesso); di un compenso adeguato all’entità del suo impegno; di una tutela previdenziale e assicurativa; di un ufficio da cui condurre la sua attività istituzionale, oltre che portare avanti le proprie convinzioni e battaglie politiche.
  2. Ogni consiglio comunale è in grado di decidere da sé, considerando le risorse e le dimensioni del suo territorio, di quanti consiglieri debba essere composto.
  3. Solo il consigliere comunale eletto deve essere impiegato a tempo pieno nell’amministrazione (come assessore o in altri incarichi).
  4. Ogni consiglio comunale è in grado di decidere in autonomia quanti dei suoi membri debbano essere amministratori a tempo pieno e garantire loro un compenso adeguato.
  5. Ferma restando la centralità ordinamentale della figura del primo cittadino, ai consigli comunali deve essere consentito adottare una forma di governo direttoriale (collegiale, quindi con consigli che siano anche giunte), specie nelle comunità più piccole.
  6. Come raccomanda da ottant’anni la Carta di Chivasso, si dovrebbe essere elettori o eleggibili solo dopo un certo periodo che si è residenti e contribuenti del proprio comune, lasciando allo statuto comunale di determinare la lunghezza di tale periodo.
  7. Premesso che l’unico modo per imparare davvero a fare il consigliere comunale è quello di farlo, chi si candida al consiglio comunale dovrebbe aver dimostrato conoscenza delle lingue locali, parlate e scritte, ed avere - almeno - la formazione e la buona condotta richieste al giudice popolare.
  8. Per quanto le persone siano (giustamente) diffidenti nel dare il potere a chi non ha un mestiere o una istruzione, si deve prendere atto che nella vita politica sono indispensabili esperienza, competenza e anzianità: per qualcuno la politica può diventare una professione, non solo una vocazione, e di questo ogni comunità dovrebbe tenere conto nel decidere i pur necessari limiti ai mandati (consecutivi o non consecutivi).
  9. La carica di consigliere comunale dovrebbe essere incompatibile con ogni altra e sarebbe opportuno che nessuno potesse essere eletto o nominato in istituzioni superiori senza prima essere stato eletto consigliere comunale.
  10. L’espressione di candidature al consiglio comunale dovrebbe essere resa possibile a tutti coloro che ne abbiano i requisiti, con il minimo di formalità, eventualmente stabilendo un numero minimo di concittadini che la supportino.
  11. La campagna elettorale comunale dovrebbe essere organizzata e pagata dall’amministrazione, assicurando a tutti le stesse opportunità e gli stessi spazi, imponendo divieti, o almeno limiti e controlli rigorosi, alla spesa privata o di parte.
  12. La scelta dei consiglieri comunali deve essere fino in fondo nelle mani dei cittadini, quindi ogni elettore dovrebbe, obbligatoriamente, votare non più solo un simbolo o uno schieramento, ma prima di tutto una persona (massimo due, di genere diverso), fra i candidati della sua circoscrizione, trovandone i nomi già sulla scheda.
  13. I comuni devono potersi aggregare in libere associazioni intercomunali, in modo tale da garantire l’esercizio di funzioni associate, secondo principi di sussidiarietà; è opportuno che gli organi di tali associazioni di comuni siano eletti dai consiglieri comunali stessi.
  14. In tutti i casi in cui il comune, per dimensione demografica o per estensione geografica, sia composto di più comunità distinte (municipi, quartieri, frazioni, altro), si lasci alle popolazioni locali la possibilità di trasformarlo in una unione di comunità.
  15. Si deve riprendere, con ritrovato entusiasmo per l’autogoverno comunale e territoriale, l’abolizione delle prefetture e di ogni altra istituzione intermedia fra le regioni (o le province autonome) e le libere associazioni o unioni di comuni.
  16. Al comune, singolarmente o in associazione con altri del territorio, deve tornare il potere di cambiare concretamente le cose, secondo Costituzione, ponendo fine alla paralisi provocata dalla metastasi normativa regionale, statale, europea.

Note

A coloro che si preoccupano delle risorse, ricordiamo che siamo impegnati per la territorializzazione delle imposte, perché esse restino sui territori e perché ci siano fondi di perequazione. I comuni, peraltro, non devono vivere di soli Euro: possono e quindi dovrebbero essere create monete locali complementari, per creare uno scambio di beni e servizi all’interno della comunità o dei territori: l’autonomia energetica con fondi rinnovabili; la produzione sostenibile di cibo lobale; asili e scuole a cui i bambini possano andare a piedi; ambulatori medici di vicinato; riuso del patrimonio abitativo esistente e affitti equi; servizi pubblici locali, fondati sul lavoro cooperativo locale, staccati dal mercato dove tutto si misura in Euro.

Guardiamo con ammirazione a tante iniziative che puntano a restituire risorse alle nostre democrazie locali, come, in ultimo, la campagna "Riprendiamoci il Comune", ma a tanti amministratori, consiglieri, attivisti, gruppi, comitati, noi chiediamo di fare, insieme, qualcosa di molto più radicale: una lunga marcia per decentrare il potere, distribuire le risorse oggi centralizzate, delegificare, restituire dignità e poteri a ciascun comune e ai territori.

Le autorità comunitarie europee e lo stato (e, di riflesso, le regioni e le province autonome) devono finirla di alimentare la metastasi legislativa, che sta paralizzando senza assicurare protezione. Devono, per essere ancora più nitidi, smettere di legiferare sovrapponendosi sulle stesse materie, in plateale disprezzo al principio della sussidiarietà. Devono trattenersi dall’emanare “grida” per tutti i comuni, imponendo le stesse regole a municipi come Santa Luce, San Vincenzo, Vecchiano, Siena, Livorno, Prato, Firenze, come se fossero uguali.

Nel nostro mondo civico, ambientalista, autonomista, confederalista, siamo ostili ai leaderismi, ai presidenzialismi (anche quelli dei presidenti-governatori regionali e dei sindaci-podestà), alle tifoserie mediatiche, all’antipolitica, al populismo, al giustizialismo, all’antistatalismo tardoliberista, a irragionevoli proibizionismi, che riempiono il dibattito pubblico riducendolo a un fatuo chiacchiericcio mediatico, conducendo la Repubblica delle Autonomie alla rovina.

A noi pare evidente che i consiglieri comunali eletti devono urgentemente riprendersi dignità e poteri, perché essi possano davvero fare la differenza, essendo vicini alle persone, alle comunità, al territorio. Poteri e ovviamente doveri, perché eleggendo consiglieri comunali come accade ora, persone senza radici, senza cultura, senza consenso, senza responsabilità, stiamo sprofondando nella palude del ciarlatanismo politico.

Ai comuni è stato imposto, dal 1992 a oggi, di abbandonare beni comuni, di chiudere servizi pubblici universali, di rinunciare a svolgere funzioni economiche, sociali, ambientali, di lasciare potere a opache tecnocrazie (pubbliche ma sempre più spesso private). Ai politici dei comuni è stato imposto di lasciare potere a “tecnici”, che sono diventati un opaco mandarinato, a cui nessuno può chiedere mai di rendere conto. Questo svuotamento dei comuni e questa cancellazione della politica, però, tanto più moltiplica aziende esternalizzate, enti funzionali, agenzie, commissariati, sovrintendenze, autorità, garanti, agende, progetti, conferenze, piani, pubblicazioni, raccomandazioni, circolari, tanto meno protegge concretamente le persone, le comunità, i territori.

Qualcuno ricorderà il 1981 non solo per una sciagurata scelta di privatizzazione dei debiti pubblici, ma anche per un importante documento dei vescovi cattolici italiani sulle prospettive del paese. Da allora, dobbiamo ammetterlo con franchezza, ogni tentativo di fermare il declino agendo sul potere centrale italiano (o europeo) è sostanzialmente fallito. La Repubblica, schiacciata da troppe leggi ma senza più legge, sta letteralmente sprecando la vita di decine di migliaia di funzionari pubblici, spesso qualificati lavoratori del diritto e della conoscenza, ma ormai persone perse, che ricevono stipendi, magari importanti, ma il cui lavoro nelle burocrazie del centralismo è totalmente inutile se non controproducente per le comunità e per i territori.

Siamo debitori, per questo appello, ai costituenti che hanno voluto sancire i principi di “sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (art. 118 della Costituzione); a coloro che ispirarono, scrissero, attuarono la rivoluzionaria, per i tempi, legge 142 del 1990 (onoriamo il ricordo di persone come Fiorenzo Narducci e Alfredo Gracili); ai fondatori delle liste verdi storiche (in particolare l’avventuara umana, politica e amministrativa di Giannozzo Pucci); alle tradizioni politiche della Firenze che è stata la città di Giorgio La Pira e dalla sua “giunta parallela”, composta da Mario Fabiani, Tristano Codignola, Romano Bilenchi; ai pionieri della rivoluzione paesana e rionale; alle tante realtà civiche che sono riuscite a vincere la guida del proprio comune, con le proprie forze, senza l’aiuto di alcun partito o di alcun potentato (o che ci stanno provando, come il Polo Civico di FabioPacciani nella Siena di questa primavera 2023); a coloro che, come i socialisti di Vecchiano, custodiscono le migliori tradizioni della politica dei partiti popolari della Repubblica delle Autonomie; a coloro che contribuiscono al Forum 2043 e che si stanno impegnando per costruire un grande movimento interterritoriale per le autonomie e l’ambiente.

Un caveat conclusivo

Siamo in una situazione grave: stiamo invecchiando, impoverendoci, spopolandoci nei nostri territori periferici rispetto alla globalizzazione; siamo minacciati dalla nostra stessa civiltà industriale che distrugge l’ambiente e disumanizza la vita; in poche mani sono concentrati strumenti di digitalizzazione e virtualizzazione talmente potenti da cancellare la stessa realtà, sostituendola con un sinistro conformismo planetario, un orwelliano appiattimento culturale e spirituale; le elite della finanza globale concentrano ricchezze immense e praticano un capitalismo predittivo che ci telecomanda nei nostri consumi e, in una prospettiva paurosa, nei nostri stessi pensieri e desideri; pochi poteri politici praticano la sorveglianza universale, con una pervasività mai vista prima nella storia; i loro apparati militari-industriali ci ordinano di amare gli oppressori e odiare gli oppressi, rendendo accettabili ai nostri occhi le loro guerre infinite. Non c’è più tempo da perdere: è il momento di una riscossa popolare.

Non possono farla gli ultimi, i troppo anziani, i malati, gli oppressi, i rifugiati, gli sradicati, i diseredati della Terra. Nemmeno la faranno coloro che sono integrati nella mentalità dominante, né, d’altra parte, coloro che sono stati abbagliati da prospettive settarie, cospirazioniste, apocalittiche. Come scrive Mauro Vaiani nel suo Cosmonauta Francesco, la rivoluzione la devono fare i penultimi: le persone che ancora hanno una cultura, una memoria, un’identità, un lavoro, una loro proprietà o un’attività economica privata, una capacità di comprendere in modo critico la parola scritta, una minima connessione alle reti sociali globali contemporanee, una capacità “donmilianiana” di avanzare i propri dubbi con parole chiare e appropriate, una spiritualità se non una fede. Persone che sanno distinguere se una cosa funziona meglio in Svizzera piuttosto che in Cina o negli Stati Uniti, a San Marino piuttosto che a Bruxelles, con un’anima libertaria e una cultura riformista, ma ancorate a una etica della responsabilità, piuttosto che della fanatica convinzione.

Sorgano quindi cavalieri di civismo, ambientalismo, autonomismo del XXI secolo, in difesa dei molti, contro i pochi, perché la vita resti umana e il pianeta abitabile: una nuova generazione di leader locali, a chilometro zero, capaci di generosità e sacrificio, disposti a concorrere alle loro elezioni locali e determinati a vincere.

* * *

Per aderire a questo appello e trasformarlo insieme in azione politica, elettorale, legislativa:

Se - e solo se - siete in grado di impegnarvi con una lista civica nel vostro comune in Toscana e volete essere parte della rete di OraToscana:

Per partecipare, con Autonomie e Ambiente, alla costruzione del movimento per l’autogoverno dei territori del XXI secolo:

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Per un governo responsabile di Roma

  • Autore: Ignazio R. Marino - Filadelfia, 11 dicembre 2023

Ci onora di un contributo al Forum 2043 il prof. Ignazio Marino, noto medico e politico, di tradizione cattolico-democratica, già senatore del PD (2008-2013). In Senato, in qualità di Presidente della Commissione d'Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale chiuse la grave ferita dei Manicomi Criminali, grazie a un'indagine che fece scalpore in tutta la Repubblica. Venne eletto sindaco di Roma il 12 giugno 2013 con il 64% dei voti ma governò solo sino al 31 ottobre 2015. In 28 mesi alla guida di Roma, incarnò una breve stagione di buongoverno che fu prima denigrata sui media e infine bruscamente interrotta dalla miopia del suo stesso partito di allora. Dal 2016, il prof. Marino è tornato alla professione medica, alla ricerca scientifica e all’insegnamento accademico, alla Thomas Jefferson University di Filadelfia. Continua a contribuire al dibattito pubblico europeo, italiano e romano, attraverso i suoi interventi su vari media e con il suo sito https://www.ignaziomarino.it/.

 

PER UN GOVERNO RESPONSABILE DI ROMA

di Ignazio R. Marino

 

Roma potrebbe essere non solo una metropoli pienamente contemporanea, ma anche una capitale proiettata nel futuro. Occorre studiare dati, fatti e responsabilità. Anni fa scrissi un libro (Un marziano a Roma, Feltrinelli, 2016) cercando di proporre un'analisi esaustiva di queste mie convinzioni, da cui provo a estrarre alcuni spunti per il Forum 2043, dove si coltivano ideali di autogoverno responsabile che valgono per tutti i territori e per tutte le comunità locali.

Roma non è una metropoli ordinaria perché insieme a tutte le esigenze di una città moderna (trasporti, raccolta e smaltimento dei rifiuti, scuole, decoro urbano, sicurezza) ha anche la responsabilità di ospitare migliaia di grandi eventi laici e religiosi e il dovere di armonizzare la città storica e archeologica con la parte urbanizzata negli ultimi cento anni.

La città storica, quella visitata dai turisti e sede delle istituzioni, è un villaggio di centocinquantamila abitanti, ma Roma ha oltre quattro milioni di cittadini che necessitano dei servizi per una normale qualità di vita. È una città-regione e nell’evoluzione degli ordinamenti di una Repubblica formata da autonomie, il dibattito sul suo status anche istituzionale dovrebbe essere ben più lungimirante, per il bene dell’Urbe e dei suoi municipi.

Le gravi carenze nel settore dello smaltimento dei rifiuti e delle carenze nel trasporto pubblico possono essere esempi paradigmatici della questione romana ma anche delle reali possibilità di cambiamento. Non è un caso che esistano problemi come quelli dei rifiuti e dei trasporti. Sono il risultato di scelte precise.

Negli ultimi 60 anni si è accettato un monopolio privato dei rifiuti e si è rinunciato a dotare la città di impianti di proprietà pubblica con il risultato di favorire il monopolio privato. Così Roma, ancora oggi, non ha impianti di smaltimento e deve portare altrove le 5.000 tonnellate di rifiuti che produce ogni giorno.

Quando venni eletto Sindaco, nel giugno 2013, Roma aveva un triste primato mondiale: era la città con la più grande discarica del mondo: 240 ettari, un’area grande come 343 campi di calcio regolamentari. Immaginatevi una superficie ampia come quasi trecentocinquanta volte lo stadio Olimpico di Roma e colma di rifiuti. Nei periodi estivi, con tutti quei rifiuti in decomposizione l’area di Malagrotta diventava nauseabonda e l’intera montagna d’immondizia era visibile a chilometri di distanza dal volteggiare di decine di migliaia di gabbiani. Uno scenario infernale. L’enorme fossa era gestita da un singolo privato che dal 1974 al 2013 aveva accolto più di sessanta milioni di tonnellate di rifiuti. Così la pulizia della città di fatto dipendeva da una sola persona. Un’area enorme del territorio cittadino concessa da tutti i sindaci agli interessi di un solo monopolista privato. Pericolosa per la salute di un’intera comunità, ma anche in contrasto con gli ideali della difesa del nostro pianeta, secondo i quali i rifiuti devono rientrare nel ciclo produttivo come vetro, carta, cartone, metallo o essere utilizzati per creare fertilizzanti.

I profitti economici legati a una discarica di queste proporzioni erano tali che nessuna amministrazione precedente alla mia aveva mai voluto intervenire. Non si intervenne neppure quando l’Unione Europea aprì una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia perché aveva indicato come data ultimativa per la chiusura della discarica il 31 dicembre 2007.

Così accadde che Roma nei giudizi sui progetti di finanziamenti europei presentati scontava delle valutazioni negative a causa della procedura d’infrazione aperta proprio per la vicenda della discarica di Malagrotta. Inoltre, l’esistenza della discarica determinava anche un gravissimo ritardo nello studiare metodologie diverse per il trattamento dei rifiuti, che a Roma sono prodotti al ritmo di circa cinquemila tonnellate al giorno.

Quasi tutto, sino alla mia elezione, era gettato nella stessa discarica, dal materasso vecchio, alla radio della nonna che non funzionava più, agli scarti alimentari di casa e dei ristoranti, la cosiddetta frazione organica.

In altre parole, dal dopoguerra al 2013 non si era studiato un modello di gestione del ciclo dei rifiuti che potesse prescindere dalla discarica e trasformasse i rifiuti da problema a risorsa. E pensare che solo dalla frazione organica, che costituisce il trentacinque per cento dei rifiuti, cioè oltre mezzo milione di tonnellate ogni anno, con tecnologie avanzate di biodigestione si potrebbe produrre energia ben più pulita di quella derivante da buona parte delle fonti tradizionali, specialmente quelle fossili.

Potrebbe sembrare, quest'ultimo, un beneficio non particolarmente rilevante, ma non è così. Il drammatico discorso del 1 Dicembre 2023 pronunciato al COP 28 di Dubai dal Segretario Generale dell'ONU, António Guterres, risuona nella mia mente. La concentrazione di gas ad effetto serra in atmosfera ha recentemente superato le 417 parti per milione, soglia mai raggiunta in quasi un milione di anni di storia. Le evidenze scientifiche e l'aumento in intensità e frequenza degli eventi estremi già in atto in tutto il mondo comportano pertanto la necessità ineludibile di perseguire, ben prima della fine del secolo, una completa de-carbonizzazione energetica al fine di scongiurare gli effetti dei cambiamenti climatici. Un imperativo, una sfida, da cui nessun sindaco, governo o amministrazione locale responsabile può esimersi.

Un capitolo a parte meriterebbero poi le polveri sottili e la qualità dell’aria cittadina, problema non solo delle grandi città nei Paesi in via di sviluppo (abbiamo tutti presente lo smog che attanaglia città come Pechino) ma, con le dovute proporzioni, anche europeo: nel 2015 la Commissione Europea ha segnalato la presenza di procedure d’infrazione per i livelli di PM10 in 16 Paesi dell’Unione, tra cui l’Italia.

Non è un caso dunque che per rispondere ai problemi del cambiamento climatico e dell’inquinamento cittadino, distinti da un punto di vista fenomenologico ma con alcune cause in comune, diverse grandi città a livello internazionale stiano definendo e già cominciando ad attuare strategie ambiziose per l’ambiente e il clima basate su tre pilastri: la mitigazione, con la riduzione delle emissioni cittadine; l’adattamento, con la mappatura e la riduzione dei rischi, su tutti quelli idrogeologici; una gestione sostenibile dei rifiuti, che porti a massimizzarne il recupero ed il riciclo, minimizzando la quantità da smaltire in discarica.

La gestione del ciclo dei rifiuti indifferenziati a Roma si è storicamente caratterizzata per una marcata prevalenza, oltre l’ottanta per cento, del trasporto alla discarica, rispetto ad altre forme di destinazione. Esistendo la discarica di Roma, il ruolo industriale dell’azienda del Comune, l’AMA, è stato sempre residuale. Bastava limitarsi alla raccolta e al trasporto in discarica senza preoccuparsi di azioni più intelligenti come il recupero della carta, del cartone o dei metalli e del vetro affinché fossero immessi nuovamente nel ciclo industriale. Tutto in una buca e punto.

Dieci anni fa, nel 2013, AMA, l’azienda della nettezza urbana di Roma, era il più grande operatore in Italia nella gestione integrata dei servizi ambientali, con circa ottomila dipendenti, ma con soli due impianti di selezione e trattamento dei rifiuti urbani, un impianto di compostaggio, un termovalorizzatore destinato solo ai rifiuti sanitari, due impianti di valorizzazione della raccolta differenziata. La chiusura della discarica di Malagrotta ha determinato un cambiamento storico nella gestione dei rifiuti di Roma.

Nel corso dei miei 28 mesi di governo la quantità di raccolta differenziata è cresciuta rapidamente raggiungendo il quarantacinque per cento nel dicembre 2015. In un solo biennio e partendo da uno svantaggio storico imbarazzante, abbiamo raggiunto e superato i risultati al tempo raggiunti da città come Berlino (42%), Londra (34%), Vienna (33%), Madrid (17%), Parigi (13%). Purtroppo quella determinazione venne meno, dopo la fine della nostra amministrazione, e oggi invece di essere al 65% si è scesi al 40%.

L’inerzia nel superare Malagrotta non aveva consentito di pianificare e attuare un sistema che consentisse di mettere in sicurezza attraverso una rete di impianti pubblici la gestione dei rifiuti della Regione Lazio e della città capitale della Repubblica. Eppure era possibile, anche attraverso evidenti sinergie e possibilità di garantire efficienza ed economicità gestionali, evitando la migrazione dei rifiuti fuori dalla Regione Lazio con i relativi costi economici ed ambientali di trasporto.

Ho personalmente e ripetutamente insistito affinché il sistema impiantistico di proprietà regionale venisse riparato e reso più efficiente con un investimento dell’ACEA che non gravasse sulle tasse dei cittadini. ACEA, l’azienda comunale che gestisce i settori idrico ed elettrico ma anche i rifiuti,si era resa disponibile, ma per due anni ogni tentativo si è arenato sulle scrivanie della burocrazia della Regione Lazio, allora governata dal Partito Democratico.

Nell’aprile del 2015 presentammo la richiesta di autorizzazione per la realizzazione di un impianto di compostaggio con trattamento preparatorio e digestione anaerobica di cinquantamila tonnellate di rifiuti organici: il primo degli impianti che avevo promesso nella campagna elettorale del 2013 e il primo impianto di compostaggio della città di Roma. Se vi fosse stata la tempestiva autorizzazione da parte della Regione Lazio, la prima pietra sarebbe stata posta a Rocca Cencia entro il dicembre 2015 e oggi quell'impianto esisterebbe. Si sarebbe avviato il superamento del modello ereditato dal passato, tutto orientato a generare rifiuti da rifiuti, per alimentare discariche e inceneritori, in palese controtendenza con le indicazioni dell'Unione Europea.

Chi amministra non deve agire secondo ciò che gli conviene in quel momento, ma deve creare una prospettiva per le generazioni future. Io pensavo alla Roma del 2030 e ai nostri figli, piuttosto che al consenso del 2014. Abbiamo camminato sulla strada giusta per la città e non su quella più facile.

Con analoga lungimiranza occorre smettere di favorire il privato nei trasporti urbani. Per decenni si sono smantellati chilometri di rotaie per i tram per favorire la vendita dei mezzi su gomma. Oggi si dovrebbero ripristinare i tram in modo da offrire un’alternativa al trasporto privato sulla propria auto o sulla propria moto. Roma è la città con il maggior numero di veicoli a motore di tutto il continente europeo: 842 mezzi privati ogni 1.000 abitanti a Roma (250 a Parigi, 360 a Londra).

In 28 mesi di governo completai 17 nuovi km di metropolitana inaugurando la linea C. Al mio insediamento la cosiddetta talpa, il gigantesco mezzo meccanico che scava sottoterra per costruire metro dopo metro la galleria, era ferma e smontata. Nei primi 365 giorni di attività la linea C ha trasportato una media di 50.000 passeggeri al giorno, per un totale che si avvicina ai 10 milioni.

Se esiste la volontà, il cambiamento può avvenire. La drammatica verità, però, è che allo stato attuale, a oltre un quarto di secolo dalla sua ideazione, non si conoscono né i tempi di realizzazione, né i costi della metro C e neanche il suo tracciato finale che lo Stato, insieme alla Regione Lazio e al Comune di Roma, dovrà prima o poi indicare.

Due elementi hanno continuamente prevalso sull’interesse pubblico: l’interesse privato e una colpevole superficialità pubblica.

Mi spiego meglio con un esempio. Se a Londra, o in un’altra città, una stazione della metro passasse nei pressi di una linea ferroviaria urbana gli amministratori pubblici si sarebbero premurati di mettere le due linee di trasporto su ferro in connessione, ad esempio con un tunnel da percorrere a piedi o con nastri trasportatori di persone. Ipotesi di funzionalità di questo tipo non sono state assolutamente prese in considerazione a Roma nel progetto della metro. La linea metropolitana C in una delle stazioni che la mia amministrazione è riuscita a consegnare, la stazione di un quartiere noto e popolatissimo, il Pigneto, dista poche centinaia di metri da una linea ferroviaria che attraversa lo stesso Pigneto. Nessuno ha pensato di creare un collegamento tra questi due snodi che sarebbe stato utilissimo. Per realizzarlo sarebbe servito un nuovo progetto ed è per questo che la nostra Giunta, con la firma dell’assessore Guido Improta nel dicembre 2014 ha siglato un accordo con Rete Ferroviaria Italiana per permettere l’interscambio tra la metro C e le linee ferroviarie Orte-Fiumicino e Viterbo-Roma Ostiense. I lavori sarebbero dovuti cominciare nel 2016 ed essere completati nel 2017.

L’idea era di rendere sempre più facile spostarsi in città con il treno e la metro. Per questo io stesso ho insistito molto perché facesse parte dell’accordo con la rete Ferroviaria Italiana anche il completamento dell’anello ferroviario nella parte Nord di Roma con la riattivazione delle gallerie tra Vigna Clara e Valle Aurelia, inaugurate durante i mondiali di calcio del 1990 e chiuse, dopo pochi giorni, per i successivi trentatré anni. Una vicenda incredibile. Per la Coppa del Mondo di Calcio Italia ’90, fu inaugurato un tratto di ferrovia tra Vigna Clara e Valle Aurelia che fu utilizzato per soli otto giorni dai treni speciali che da Roma Tiburtina portavano gli spettatori allo stadio Olimpico. Ripristinare questo collegamento permetterebbe di connettere il quadrante Nord della città alla Ferrovia Regionale che da Roma Ostiense attraversa la Capitale con importanti stazioni, come San Pietro, Trastevere, gli ospedali Policlinico Gemelli e San Filippo Neri, per raggiungere Cesano, Bracciano e Viterbo. I vantaggi sono facilmente immaginabili. Una persona che dalla Balduina o da corso Francia vorrà raggiungere il quartiere Ostiense lo potrà fare su un treno urbano in quindici minuti, leggendo e ascoltando con le cuffiette la musica dal proprio cellulare, invece che in oltre sessanta minuti di stress nella propria automobile. Oppure potrà salire in treno a Vigna Clara, cambiare a Valle Aurelia, salire sulla metro A e arrivare comodamente a Cinecittà.

Volevo davvero fortemente rafforzare il trasporto su ferro nel quadrante nordoccidentale della città per il completamento dell’anello ferroviario, opera di cui si parla dal 1913, servono poco più di cinque chilometri di nuove rotaie e un nuovo ponte sul Tevere. Si tratta di un obiettivo che rivoluzionerebbe tempi e certezze negli spostamenti di milioni di persone.

In realtà esiste anche un altro problema: il colpevole sotto-finanziamento del trasporto pubblico di Roma rispetto ad altre metropoli italiane. Alcuni numeri descrivono la situazione meglio di tante parole. I soldi per i trasporti pubblici a integrazione del costo del biglietto, che in Italia è mantenuto al di sotto del costo reale del servizio, derivano dallo Stato attraverso il Fondo Nazionale Trasporti. Il Lazio riceve dallo Stato circa 576 milioni di euro all’anno, la Lombardia 853. Roma ha un territorio di 1.285 chilometri quadrati, Milano 703. Nell’anno 2014 Roma ha ricevuto dalla Regione Lazio140 milioni di euro, mentre la Regione Lombardia ha destinato a Milano più del doppio,285 milioni di euro. La sproporzione è evidente e risalente.

Addirittura, il finanziamento destinato a Roma al momento in cui fui eletto sindaco era pari a zero euro. Eppure Roma non solo è la città più estesa d’Italia, ma è anche capitale politica, religiosa, culturale.

Come era possibile che i diversi livelli di governo, nazionale, regionale e comunale si fossero disinteressati di Roma al punto di non finanziare autobus, tram e metro?

Ero e resto convinto che la soluzione debba essere strutturale: Roma ha diritto di avere una quota del fondo nazionale per il trasporto pubblico. Per questo proposi ad alcuni senatori di scrivere una norma da inserire nella legge di stabilità del 2014 e risolvere per sempre il problema: Roma avrebbe avuto ogni anno quanto le spettava per far funzionare autobus, tram e metro senza doversi presentare con il cappello in mano dinanzi al presidente della Regione Lazio per ottenere ciò che le leggi prevedono ma non garantiscono.

Convocai una riunione con il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’assessore ai trasporti di Roma Guido Improta e il presidente della commissione trasporti della Camera dei Deputati Michele Meta per informarli. Vennero in Campidoglio nell’autunno del 2013 e quando proposi di modificare le modalità di finanziamento dei trasporti di Roma con uno stanziamento diretto dello Stato, senza la Regione come intermediario, la riunione divenne molto tesa per la netta opposizione di Nicola Zingaretti, che preferiva non cambiare nulla e lasciare che le somme transitassero dallo Stato alla Regione e dalla Regione al Comune, e l’imbarazzo di Michele Meta che suggerì una non meglio precisata soluzione politica.

Ne rimasi frustrato e incredulo: possibile che nessuno comprenda quanto sia strategico per una città come Roma, e quindi per tutta Italia, un adeguato trasporto pubblico?

Mi fidai delle loro parole e della promessa di affrontare e risolvere il problema dei flussi di denaro dalla Regione al Comune nel settore dei trasporti entro la primavera del 2014. Sbagliai: tutto ancora oggi è rimasto immutato.

Voglio concludere scrivendo brevemente di un'altra enorme questione: la complessità di una città capitale che ospita, oltre alle istituzioni centrali della Repubblica, lo Stato del Vaticano, decine di realtà internazionali, centinaia di ambasciate, migliaia di istituzioni culturali e politiche, un patrimonio artistico immenso che attrae visitatori da tutto il pianeta. Studiando questi argomenti con Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, e sir Edward Lister, vicesindaco di Londra, appresi che Parigi riceve una somma aggiuntiva che sfiora il miliardo di euro e Londra quasi due miliardi di euro all’anno per le loro rispettive funzioni di capitale.

Nel 2014 indicai un percorso di ripensamento, affrontato con metodo: analisi dei costi aggiuntivi per la pulizia della città, straordinari per le forze di polizia locale, impatto sui mezzi del trasporto pubblico e altri indicatori misurabili. Un lavoro che ha aperto per Roma un capitolo di programmazione economica basata su esigenze reali e condizioni finanziarie esistenti. Ottenni che nella legge di stabilità votata nel 2014 fosse inserita, per la prima volta, una voce che riconosceva a Roma i costi di capitale della Repubblica. L’importo, pari a 110 milioni l’anno, è assolutamente insufficiente, dati i nostri calcoli che tra trasporti, ambiente, polizia locale e viabilità, stimavano i costi aggiuntivi in almeno 400 milioni di euro. Ma almeno il principio venne riconosciuto in una legge.

Resto convinto che il Comune di Roma dovrebbe alleggerirsi di proprietà e aziende che potrebbero essere affidate all’iniziativa privata (centrale del latte, un centro fiori, un centro carni, una compagnia di assicurazioni, quasi cinquanta farmacie, gli affitti di centinaia di appartamenti residenziali, partecipazioni spesso minuscole in aziende prive di senso strategico per il bene comune della città). Al contrario la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti sono una missione cruciale che deve essere condotta da un’amministrazione pubblica romana forte e competente.

Roma non è condannata dal fato. È governabile e proiettabile nell'ambito delle metropoli moderne. È necessario che tutta la classe dirigente comunale sia più autonoma e responsabile. Serve che la politica e le istituzioni nazionali non difendano lo status quo. Occorre che i poteri civili e religiosi, finanziari e imprenditoriali, non portino avanti esclusivamente i propri interessi, ma che si sottomettano al progetto di bene comune scelto dai cittadini al momento delle elezioni democratiche dell’amministrazione capitolina e dei suoi municipi.

Ignazio Marino

(da Filadelfia
11 dicembre 2023)

La foto del post è tratta da https://x.com/ignaziomarino/status/1717220983784763697?s=20

 

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Seminario sulle parole vive di Chivasso

Seminario online

PAROLE VIVE PER LE AUTONOMIE E L'AMBIENTE

Sabato 11 marzo 2023, ore 16
(conclusione lavori prevista per le ore 18 circa)

Promosso dal Forum 2043
in collaborazione con la presidenza di Autonomie e Ambiente (AeA)

Piattaforma: https://zoom.us/j/97267541503?pwd=KytzRmNzcngzeDIxUnpVNW1mdnE5Zz09

Presentazione

Crediamo in una primavera politica animata da valori civici, ambientalisti, autonomisti. Al deserto di idee e progetti, alle regole elettorali antidemocratiche, alla mancanza di dibattito civile su una stampa libera e pluralista, reagiamo rivendicando il nostro posto e assumendoci le nostre responsabilità in Italia e in Europa. I nostri movimenti, gruppi, intellettuali, attivisti territoriali sono ancorati ai principi della Carta di Chivasso del 1943, di cui quest'anno celebreremo l'ottantesimo anniversario.

Le parole di Chivasso sono vive, qui e ora, per noi che crediamo nella Repubblica delle Autonomie, nell'Europa dei popoli, in un mondo liberato da autoritarismi, colonialismi e militarismi.

Il nostro compito è portare avanti la visione del partigiano e martire Émile Chanoux e promuovere gli ideali di autogoverno dei territori, sussidiarietà verticale e orizzontale, autonomie personali, sociali e territoriali, che sono incisi nella Costituzione italiana, grazie all’impegno di padri costituenti come Giulio Bordon, Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Andrea Finocchiaro Aprile, Emilio Lussu, Aldo Spallicci, Tiziano Tessitori.

Ciò che la nostra storia di lotte per l'autogoverno ci tramanda è essenziale per chi vuole difendere l’acqua, la terra, la salute, le autonomie, le nostre comunità ed economie locali, i doveri dei contemporanei e i diritti delle generazioni future.

I nostri pensieri devono essere lucidi, le nostre azioni risolute, oggi più di sempre, contro i cialtroneschi avventurieri di un falso autonomismo "differenziato" che in realtà tradiscono da venticinque anni le autonomie esistenti e vogliono condurci verso il disastro del presidenzialismo, come se l'Italia non fosse già uno stato sufficientemente centralista e autoritario, dove chi è temporaneamente al potere crede ancora, ottant'anni dopo, in "Roma doma".

Programma

  • Lettura pubblica della Carta di Chivasso (le voci sono di Sara Borchi e Stefano Fiaschi)
  • Massimo Moretuzzo (Patto per l'Autonomia Friuli - Venezia Giulia)
  • Mauro Vaiani (OraToscana, segreteria di AeA, coordinamento del Forum 2043)
  • Silvia Fancello, "Lidia" (rappresentante EFA-ALE e referente AeA in Sardegna)
  • Alfonso Nobile, "Alessandro" (Siciliani Liberi, vicepresidente di AeA)
  • Claudia Zuncheddu (Sardigna Libera, attivista per l'autogoverno e per la salute in Sardegna, Forum 2043)
  • Andrea Acquarone (autonomista ligure e animatore di "Che l'inse!")
  • Samuele Albonetti (Rumâgna Unida, già coordinatore del MAR)
  • Gino Giammarino (editore e attivista per l'autogoverno a Napoli e nel Sud, Forum 2043)
  • Alfredo Gatta (Pro Lombardia, vicepresidente di AeA)
  • Maria Luisa Stroppiana (Assemblada Occitana - Valadas)
  • Milian Racca (Liberi Elettori Piemonte)
  • Walter Pruner (autonomista trentino)
  • Erik Lavevaz (Union Valdôtaine)
  • Roberto Visentin (Patto per l'Autonomia Friuli - Venezia Giulia, vicepresidente EFA-ALE, presidente AeA)

 

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Collaborazione tecnica: Renzo Giannini - Il Lampone - https://www.youtube.com/lorenxman

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